Allattamento al seno: in pubblico perchè no?

Perchè una donna può sentire il bisogno di allattare in pubblico? Qualcuno se lo domanda e poi si risponde da solo. Sarà per uno sfizio esibizionistico. O per non curanza. O per facili costumi. Per pigrizia. E l’elenco delle risposte “intelligenti” potrebbe continuare, una volta saltata e rimossa la risposta più semplice e banale: insieme alla sua mamma c’è un bambino che piange perchè ha fame, dove si trovano si trovano: sul tram, al ristorante, su una panchina, passeggiando per strada. A quel punto la madre decide cosa è più importante: se l’immediato bisogno nutritivo ed emotivo del suo bambino o le eventuali paturnie, i disagi, i turbamenti e i bachettonismi, delle persone circostanti. Quelle che magari, non hanno mai allattato, ma sottovoce o nei loro retropensieri, sono pronte a giudicare chi lo fa, senza nascondersi.
Qualcuno, purtroppo, è pronto a passare anche alle vie di fatto per far valere un immaginario divieto di allattamento in pubblico. Il caso più recente, quello di un albergo a Madonna di Campiglio. Nell’anno 2009, in epoca di esibizionismi senza confini, un direttore d’albergo chiede alla mamma di «nascondersi», mentre nutre il suo piccolo al seno. «Non è colpa mia se qualche cliente ha protestato», dice. Lo sgradevole episodio ha giustamente suscitato la protesta del sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella, ma di sicuro non è un caso isolato. Tempo fa, ha avuto la sua versione virtuale, con il divieto di Facebook di pubblicare le foto delle mamme che allattano.

Questo atteggiamento di rifiuto, di incomprensione, che considera disdicevole svolgere in pubblico il gesto più naturale e sano del mondo, produce almeno due conseguenze negative: 1) induce le madri a recludersi oppure a scegliere tra ruoli obbligati a divenire incompatibili, quello di madre ritirata in casa con il proprio bambino, che può richiedere il latte anche ogni ora, o quello di un essere sociale che continua a condurre una vita normale, a lavorare, e a spostarsi liberamente. 2) Nella scelta della libertà, a finire sacrificato rischia di essere il latte materno e i cicli naturali di nutrimento del bambino, a favore del pratico e pubblicamente esponibile biberon con latte artificiale e i suoi rigidi orari.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, raccomanda allattamento materno esclusivo per i primi 6 mesi. La raccomandazione che vale per le madri, non può non valere anche per il mondo circostante, parenti, amici, conoscenti, vicini, colleghi ed estranei, i quali, in ogni situazione, dovrebbero assumere un atteggiamento almeno non dissuasivo. Allontare, apostrofare o comunque importunare una donna che allatta, in qualsiasi luogo, dovrebbe essere un reato.

Dichiarazione UNICEF-OMS sull’allattamento al seno

Giustizia e libertà

Le tante ipotesi di rilancio, rifondazione, della sinistra, del comunismo, dopo il fallimento dell’Urss, hanno al fondo questa idea: la conciliazione del principio dell’uguaglianza con quello della libertà.

E’ l’ipotesi di Rifondazione comunista, ma la si può ritrovare anche nel nome stesso della formazione concorrente “Sinistra e Libertà”. Era il modo in cui Achille Occhetto spiegava il nuovo corso del PCI e poi la fondazione del PDS. Era l’intuizione del socialismo liberale, di Giustizia e libertà, della stessa Socialdemocrazia e, infine, dell’eurocomunismo berlingueriano. In fondo, era la stessa idea di Marx che vedeva nel libero sviluppo di ciascuno la condizione del libero sviluppo di tutti.

In Italia, questa intuizione però, ha sempre prodotto derive di destra, dal PSDI di Saragat, al PSI di Nenni e poi soprattutto di Craxi, al PDS-DS di Occhetto, D’Alema e Veltroni.

Senza particolari consapevolezze, avevo una vaga percezione di questo andamento già all’età di sedici anni. Provavo diffidenza per lo strappo nei confronti dell’URSS e interrogavo i compagni più grandi sul nostro prossimo futuro: diventeremo come il PSDI e come il PSI? Era il 1982. Loro mi rispondevano: “No, siamo davvero un partito diverso, abbiamo fiducia nei nostri leader, nei nostri dirigenti“. Mi citavano Berlinguer, ma anche i dirigenti locali della Federazione.

I miei due oracoli erano sinceri e oggi sono due bravi sindacalisti della FIOM. Ma, Berlinguer, morì due anni dopo e il partito prese la china che, senza alcun merito, avevo indovinato, con il mio schematismo e il mio semplicismo, senza una particolare intelligenza politica, che a quell’età neppure potevo pretendere di avere.

Non successe, per colpa del distacco dall’URSS, non successe per colpa di nessuno. Fu per il venir meno dell’essere partito della classe operaia, perchè dopo la sconfitta dei 35 giorni della Fiat, le ristrutturazioni, le delocalizzazioni, la frammentazione del tessuto produttivo, venne meno la classe operaia, la cui sconfitta fu sancita dal referendum sulla scala mobile del 1985.

Quella giusta intuizione che mette insieme uguaglianza e libertà, per potersi realizzare, per non rimanere solo libertà, ha bisogno di un ancoraggio, di essere l’espressione politica e organizzativa di tante persone in carne ed ossa che per essere liberi come individui hanno bisogno della giustizia sociale come principio collettivo.

Afghanistan: gli Usa come l'Urss?

In un articolo sulla situazione in Afghanistan, prossima alle elezioni del 20 agosto, Guido Rampoldi conclude citando Fawzia Koofi, la giovane vicepresidente del parlamento afghano, la quale dice: «L’unico argomento che può convincere sul serio i Taliban è un bombardiere americano». In Italia parrà incredibile, ma la Koofi è una femminista e milita nella sinistra.
A me sembra credibile. Se vivessi in Afghanistan, tanto più se fossi una donna, considererei mio amico qualsiasi nemico dei taliban. Non sono però sicuro che questo sia il punto di vista di tutta la sinistra e di tutto il femminismo afghano, per esempio dell’Associazione Rawa. Immagino, in Afghanistan, come in Italia, ci siano posizioni differenti rispetto alla presenza occidentale.

Tuttavia il bombardiere americano i taliban non li ha ancora convinti. Ricordo all’inizio della guerra, una intervista di non so più quale telegiornale a non so più quale militare o analista militare, forse Andrea Nativi, ma potrei sbagliarmi, al quale fu posta una domanda, formulata all’incirca così: “Gli americani si apprestano ad attaccare e occupare l’Afghanistan. Non andranno incontro alla stessa sorte dell’Urss?“. L’analista (o il militare?) rispose sicuro e sorridente di no. Disse: “I sovietici invasero l’Afghanistan per restare, gli americani vogliono solo liberarlo dai taliban e da Al Qaeda, raggiunto l’obiettivo se ne andranno“.

L’invasione sovietica dell’Afghanistan cominciò il 24 dicembre 1979 e terminò con il ritiro delle truppe dell’Urss il 2 febbraio 1989, durò in tutto poco più di nove anni. La guerra degli Stati Uniti in Afghanistan inizia nell’ottobre del 2001 ed è tuttora in corso, dopo più di otto anni. Forse è il momento di convincersi che i bombardieri da soli non sono convincenti.

Cassazione: si alle molestie senza libidine

Dai tempi di “Processo per stupro” si sono fatti, sia pure lentamente, molti passi avanti, nella cultura, nella legislazione e nelle sentenze. Ogni tanto il passato riaffiora e viene accolto con un misto di ilarità e indignazione.

Succede per alcune bizzarre sentenze della Cassazione, oggetto di protesta e di unanimi commenti negativi, almeno nell’opinione pubblica formata dai grandi quotidiani. Famosa è la sentenza secondo cui “non è stupro se lei indossa i jeans“.

Recentissima, quella del molestatore senza libidine: un lavoratore che molestava le colleghe è stato assolto perchè si comportava in tal modo per scherzo e non per soddisfare la propria libido.

Sarebbe interessante capire come i giudici siano riusciti a determinare le sensazioni provate dal molestatore. Ma, cosa cambia dal punto di vista delle vittime? Il principio che dovrebbe valere è molto semplice: nessuno può toccarmi senza il mio consenso. Punto. Chissà se certe sentenze assolutorie sono decise per piacere o per scherzo. L’effetto, comunque, è molesto.

La campagna di Repubblica contro Berlusconi

Non sono del tutto d’accordo nel liquidare come “gossip” la campagna sulle frequentazioni private extraconiugali del presidente del consiglio, per almeno tre motivi.

1) Lui stesso esibisce la sua vita privata a fini pubblici, poi quando questa esibizione lo mette in difficoltà, risolve la faccenda ricorrendo alle bugie, come è successo nel caso del suo rapporto con Noemi Letizia. 2) Alcune delle donne da lui frequentate sono state ricompensate con risorse pubbliche (posti di lavoro o candidature politiche); 3) il suo stile di vita ostentato concorre alla formazione di costume, un modo di essere uomini e di rapportarsi alle donne, che può riassumersi nella parola “gallismo”.

Ciò detto, Berlusconi ha fatto cose altrettanto e forse più gravi. Basti consultare la voce di Wikipedia dedicata ai “Procedimenti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi“, per conoscere i reati di cui è stato imputato e le leggi ad personam usate per sottrarsi alla giustizia, ultimo il lodo Alfano. Eppure su questo terreno, il cavaliere non è mai stato disarcionato, fino al punto che, quando si citano le sue vicende giudiziarie, di riflesso, una parte della sinistra afferma che “non bisogna parlarne, perchè così si fa il gioco di Berlusconi”.

Sui rapporti con le donne, invece, questa condizione di impunità pare non funzionare completamente. La campagna di Repubblica insiste da tre mesi e il premier si dibatte tra silenzi, bugie, contraddizioni e non riesce a spostare l’attenzione su altri argomenti. In parte la fiducia del suo elettorato risulta intaccata e anche la Chiesa cattolica lo attacca.

Iran, ragazze vergini stuprate e giustiziate

L’Ansa e l’Unità hanno diffuso una notizia abberrante. Un anonimo miliziano Basiji intervistato dal Jerusalem Post ha raccontato di giovani donne vergini condannate a morte e stuprate in carcere la notte precedente l’esecuzione. Secondo la legge islamica vigente in Iran, è vietato giustiziare una vergine. Per poterla giustiziare, la vergine viene sposata ad un carceriere, il quale, anche a scopo di ricompensa, abusa di lei prima che sia messa a morte.

La notizia è talmente aberrante che viene il dubbio possa essere falsa, considerando che la fonte originaria è un giornale israeliano di destra, giornale del paese che vorrebbe muovere un attacco armato all’Iran. Purtroppo però la questione relativa all’autenticità di una notizia e quella relativa alla sua strumentalizzazione, non sono coincidenti. E’ possibile strumentalizzare notizie vere. Un altra versione plausibile infatti è che crimini di questo genere siano noti e che solo oggi si scelga di enfatizzarli. D’altra parte, sappiamo che in Iran vengono impiccati i giovani solo perchè omosessuali e sappiamo anche che in quel paese, come in molti altri paesi islamici, la violenza contro le donne raggiunge vette intollerabili.

Una mia amica iraniana dice che si, queste cose in Iran succedono per davvero, non è una usanza nuova. Le ragazze stuprate e messe a morte in genere sono accusate di essere comuniste e le famiglie sono anche costrette a pagare la dote al “marito” carceriere. L’usanza è citata anche in Persepolis di Marjane Satrapi e nel libro di Marina Nemat, “Prigioniera a Teheran” (Cairo, 2007).

Legittimità di governo e opposizione

In una nostra mailing list, nostra di partito, un compagno, riferendosi alla repressione della protesta iraniana e a quella degli uguri nello Xinjiang, afferma un principio semplice ed elementare: quando una autorità costituita, di destra o di sinistra, reprime con la forza qualsiasi espressione di dissenso, si deve esprimere ferma condanna.

Ma un altro compagno non è d’accordo, poichè secondo lui esiste nell’azione di un governo popolare rivoluzionario un confine labile tra resistenza legittima e repressione del dissenso a fronte di un confine altrettanto labile nell’azione di un blocco reazionario tra tentativo di rovesciare il governo popolare e il manifestare dissenso: un governo socialista ha il diritto di reprimere il blocco reazionario che tenta di riprendere il potere? E se lo fa, sta operando una legittima resistenza o sta abusando di un potere in maniera anti-democratica? C’è la necessità di una continua problematizzazione e contestualizzazione caso per caso.

Questa obiezione si rifà a posizioni che un tempo sarebbero state definite di tipo “filosovietico” o comunque ad una filosofia fondata sulla contrapposizione tra “democrazia sostanziale” e “democrazia formale”. La crisi delle ideologie (o meglio, della nostra ideologia) ha portato anche ad un declino del dibattito ideologico e di conseguenza al permanere sotto traccia di modi di pensare anacronistici e non compatibili con una ipotesi di Rifondazione. D’altra parte, la caduta del socialismo reale, per paradossale che possa sembrare, è parte di un processo di crisi della democrazia e dell’universalismo dei diritti che ha investito anche il liberalismo.

I principi vanno sì rapportati alla realtà, però i principi bisogna averli, altrimenti nella contestualizzazione l’unico principio che vale è quello della faziosità. Le domande poste sopra potrebbero valere anche per un governo di destra a fronte di un movimento di opposizione di sinistra. Allora bisogna ragionare sulla legittimità del governo e dell’opposizione, a prescindere dalla collocazione politica. Non possono esistere principi di legittimità differenti, a secondo della linea politica di un governo o di una opposizione.

Quale governo è legittimo? Quello che ha la maggioranza dei consenso popolare. Maggioranza espressa dal voto a suffragio universale. Voto la cui procedura, dalla convocazione, allo svolgimento, allo scrutinio, alla proclamazione del vincitore, è controllata da tutte le parti che concorrono alle elezioni e in caso di contrasto si affidano ad una autorità terza, separata e indipendente dal potere politico. L’opposizione è legittima quando rispetta di fatto l’autorità del governo. Al limite, l’opposizione può anche arrivare a dire che il governo non è legittimo, purchè non intraprenda iniziative di forza volte a rovesciarlo.

In sostanza, la legittimità del governo e dell’opposizione si fondano su un sistema di regole e di procedure, di divisione dei poteri, democratiche e di garanzia, che permettano l’espressione di una maggioranza, ma permettano anche alle minoranze di operare per poter diventare un giorno esse stesse maggioranza. E’ un sistema che definiremmo liberaldemocratico. Purtroppo, finora nessuno a saputo realizzarne uno migliore, neppure i comunisti i quali non hanno elaborato neanche una teoria dello stato.

L’alternativa è il confronto sul piano dei puri rapporti di forza. Un’alternativa che nella maggior parte dei casi è stata sfavorevole alle classi subalterne, non solo perchè non le ha fatte vincere, ma anche perchè non ha garantito loro nemmeno i diritti fondamentali. Esistono situazioni in cui questa è l’unica condizione possibile, poichè il sistema collassa e non esiste di fatto più alcuna autorità. In tal caso, ogni minoranza è legittimata (storicamente) a tentare di prendere il potere con la forza e a reprimere i suoi oppositori. Conquistato il potere deve poi però ricreare le condizioni di una convivenza democratica, altrimenti sul medio lungo periodo il nuovo potere perderà la sua legittimità.

Perciò, trovo poco sensato il dualismo tra riformisti e rivoluzionari, proprio perchè esistono situazioni di crisi rivoluzionaria in cui non ha senso essere riformisti ed esistono periodi di stabilità dell’ordinamento politico ed economico, in cui non ha senso essere rivoluzionari.

Craxi fu un innovatore?

Negli anni Ottanta predicavamo l’alternativa alla Democrazia cristiana, ma vedevamo nel PSI di Craxi il nostro peggior nemico. Mica per settarismo, semplicemente ricambiavamo il “nuovo corso” del Midas, che aveva tra i suoi dati costituenti l’anticomunismo, come condizione dell’autonomia socialista. E poi, certo, non ci piaceva vedere un partito di sinistra trasformarsi in un partito di destra. Era inquietante, se succedeva a loro, poteva succedere anche a noi. Molto banalmente credevo non ci fosse il due senza il tre. Appena un anno o due anni dopo leggevo in Corso Palestro la bacheca dell’Avanti, sotto la sede del PSI e pensavo a quel giornale come doveva essere stato un tempo dalla parte degli operai, degli studenti, dei pacifisti e come era diventato oggi, filo-governativo, filo-antlantico, anti-operaio. Provavo a immaginarmi adulto, 40-50 enne di fronte ad una bacheca dell’Unità come nella replica di un brutto film. Senza essere dotato di nessuna particolare elaborazione politica, senza padroneggiare specifiche categorie interpretative, insomma senza saperne nulla, ero persuaso in modo fatalistico, che la vita dei regimi, delle organizzazioni e degli individui, procedesse da sinistra verso destra, così come il mondo girava da oriente verso occidente. Nelle mie proiezioni, il futuro PCI di destra non aveva un volto, non immaginavo il cambiamento del nome e del simbolo, non immaginavo D’Alema, Fassino e Veltroni nella parte di artefici, per esempio, nella parte di riabilitatori di Bettino Craxi.
L’ultimo in successione è stato Veltroni, qualche giorno fa: “Craxi fu un innovatore“. In politica estera. Quindi, fece bene ad installare i cruise a Comiso ed avevano torto il movimento pacifista, le miriadi di comitati per la pace sparsi in tutto il paese, nelle fabbiche, nelle scuole, nei quartieri. Nell’organizzazione del partito. Non so bene qui a cosa si riferisca Veltroni, immagino al “partito leggero”, ma il PSI non riusci mai ad essere un partito territoriale di massa come il PCI, anche se ci provò. Smantellare quel poco di struttura e puntare sui media, sulla centralità del leader fu relativamente facile, ma cosa aveva questa scelta di apprezzabile? Liquidò le correnti, quindi la democrazia interna, svuòtò gli organismi dirigenti rimpiazzati da una assemblea nazionale composta da attori, cantanti e uomini della televisione (come si disse “nani e ballerine”), forse anticipando il costume di Vallettopoli. Per tacere dei metodi di finanziamento: anche questi fanno parte dell’organizzazione. Come è noto, diedero luogo ad un sistema fondato sulla corruzione e portarono alla distruzione dei partiti di governo della cosiddetta “Prima Repubblica”, compreso il PSI. Il Partito socialista distrutto: un bel risultato per un innovatore dell’organizzazione e della linea politica. La comunicazione. Mi vengono in mente le lunghe pause, l’occupazione della Rai e il fiancheggiamento berlusconiano. Craxi si appoggiava alla Fininvest e fu per merito suo che Berlusconi potè mantenere tre canali televisivi nazionali.

Secondo l’innovativa vulgata veltroniana però, l’unico neo di Craxi ha riguardato tutt’altro: pronunciare quel «andate a mare» in occasione del referendum sulla preferenza unica del ‘ 91. «Se avesse colto quell’ occasione – afferma Veltroni – avrebbe dato vita ad un bipolarismo che avrebbe potuto incardinarsi solo su una leadership riformista, certo non post-comunista». Sarà, ma all’epoca il sistema delle preferenze era fondamentale per il Caf e quanto al bipolarismo, il PSI dopo un decennio di “innovazione” rimaneva inchiodato alla sua dimesione di medio partito, tra i due grandi DC e PCI-PDS e nella definizione della leadership i voti e le dimensioni delle organizzazioni mantengono il loro peso. Infatti, l’egemonia “riformista” nella leadership della sinistra alla fine è stata interpretata dai post-comunisti. Se è successo così, non sarà stato uno scherzo del destino.

Per gli ex dirigenti diessini, è difficile parlar bene di Craxi, senza dir male di Berlinguer. Il top è riuscito a raggiungerlo Piero Fassino nel 2003: [ Il PSI di Craxi] “interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia” “La sfida con Craxi colse i comunisti impreparati e mise a nudo il loro ritardo nel misurarsi con la modernità”. «Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita: la partita dura ormai molte ore; sta giungendo alle battute finali e guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova». (dal libro Per Passione, di Piero Fassino – Rusconi 2003). Una vetta troppo alta, per quanto talentuoso, Veltroni ha dovuto accontentarsi di mettersi in pari con la battuta dalemiana sui “rivoluzionari e conservatori” che senza la rivoluzione sono solo conservatori.

Dice Veltroni: Craxi fu meglio anche di Berlinguer che, nel 1980, davanti ai cancelli di Mirafiori «si immolò dimostrando di non aver colto appieno ciò che stava accadendo». La critica a Berlinguer tardo operaista davanti ai cancelli della Fiat è un classico dei luoghi comuni sul PCI e sul suo leader. In realtà, Berlinguer aveva capito abbastanza da essere contrario allo scontro frontale con la Fiat, ma una volta che il conflitto era in atto, pensava, di avere il dovere di schierarsi senza esitazione. Una cosa fuori dal mondo per gli attuali giocatori di scacchi del PD, ma all’epoca il PCI era il partito dei lavoratori, aveva una classe sociale da tutelare, una esigenza materiale immediata, al di là della sua valenza ideologica. Facile per il PSI che non rappresentava quasi nessuno, girare la faccia dall’altra parte.

Non esiste riabilitazione di Craxi da parte diessina che possa mettere in pace l’intera diaspora socialista. Stefania Craxi è probabilmente rimasta contenta, ma in Riccardo Nencini, per dirne un altro, prevale invece il rancore. Ecco la news: Nencini: su Craxi Veltroni smemorato. “Non può che far piacere a qualunque socialista che Walter Veltroni abbia scoperto che Bettino Craxi non era un pericolo per la democrazia, come sosteneva il suo partito, il Pci, e il suo giornale, l’Unità, ma un leader politico ‘innovatore’, un ‘riformista’”. E’ quanto afferma Riccardo Nencini, segretario del PS ed esponente di Sinistra e Libertà”. Chissà se ha fatto piacere anche a Nichi Vendola.

Perchè Grillo non può candidarsi alle primarie del PD?

Perchè Beppe Grillo non può candidarsi alle primarie del PD? Il Partito democratico non è il mio partito, ma è il partito più rilevante dello schieramento democratico. Un tempo si sarebbe detto, il più grande partito della sinistra. Quel che succede in quel partito, interessa tutti i democratici di sinistra, dai liberal ai comunisti. Perciò, attenzione al prossimo congresso, alle primarie, al leader e alla linea politica che ne uscirà. Da quel poco che riesco a capire, Franceschini rappresenta la continuità veltroniana, il partito a vocazione maggioritaria che mira ad assorbire tutto il centrosinistra o a formare alleanze rigorosamente omogenee. Bersani, sostenuto da D’Alema, rappresenta il ritorno all’Unione, alle alleanze, le più ampie possibili, dall’Udc a Rifondazione, per battere la destra. Marino rappresenta il principio e il primato della laicità, in un partito troppo spesso accusato di essere succube dei cattolici, dei teodem, del Vaticano. E Beppe Grillo? Potrebbe essere l’erede dei girotondini, dell’antiberlusconismo intransigente sullo stile di Micromega, Di Pietro, Travaglio, la rivolta contro la casta, l’antipolitica, un modo di dire basta o “vaffanculo” a tutta la classe dirigente.
Si dice che Grillo sia sempre stato ostile al PD. ma il PD è un partito con (forse) cinquecentomila iscritti e otto milioni di elettori: Grillo è ostile a tutte queste persone? E’ ostile al gruppo dirigente e infatti si candida in alternativa e dichiara di riconoscersi nel manifesto etico del partito. Cosa c’è che non funziona? Si dice che Grillo, nelle recenti amministrative, si è presentato con liste concorrenti al PD e ciò per norma statutaria ne impedirebbe l’adesione. Ma perchè non potrebbe aver cambiato idea? Forse che tutti quelli che nelle recenti amministrative sono stati candidati in altri partiti oggi non potrebbero iscriversi al Partito democratico? Stefano Ceccanti, in una intervista al Manifesto, ha dichiarato che le porte delle primarie sono aperte ai radicali e a Nichi Vendola, ma non a Grillo. I radicali sono stati candidati nelle liste del PD, Nichi Vendola fa parte di un movimento alleato del PD. Ma anche Grillo appartiene all’universo del centrosinistra, è amicissimo di Antonio Di Pietro, il principale alleato del PD alle politiche del 2008.

Allora, si chiede, perchè non si candida alla guida dell’IDV? La domanda presuppone che PD e IDV siano due partiti distinti, in senso tradizionale. Una volta i partiti erano veramente partiti, cioè parzialità, con i loro programmi, le loro ideologie, la loro classe di riferimento. Oggi i moderati prevalenti a destra e a sinistra dicono che tutto questo non va più bene, che crea troppa frammentazione, che bisogna razionalizzare, semplificare la rappresentanza. Per fare questo a sinistra è nato il PD, il cui compito è appunto quello di inglobare tutto ciò che non è di destra, mentre dall’altra parte è nato il PDL, che deve a sua volta inglobare tutto ciò che non è di sinistra, sul modello del bipartitismo americano.

I partiti non sono più parzialità, ma enormi contenitori, assemblamenti di cartelli elettorali, in rappresentanza di ogni istanza dalla più moderata alla più radicale. Perciò, con questa filosofia, le primarie sono aperte a tutti, anche ai non iscritti. Giusto o sbagliato che sia questo progetto, nel momento in cui viene proposto può essere preso sul serio e messo alla prova. Così succedono le candidature passate di Di Pietro e Pannella (respinte nel 2007), e quella presente di Grillo, destinata a uguale sorte.

Se un grillino non iscritto al PD, che ha sempre detto peste e corna del PD, può votare alle primarie, perchè Grillo non dovrebbe potersi candidare? Il PD vuole essere il partito di tutto il centrosinistra? Se si, apra le porte. Poi, tutte le critiche rivolte a Grillo, possono essere giuste e avere come conclusione il fatto che quel candidato è meglio non votarlo. Altra cosa è dire che non deve poter essere candidato. Secondo un sondaggio Crespi Ricerche alle primarie del PD un elettore su cinque sarebbe disposto a votare Grillo (19,8%), però Franceschini arriverebbe primo (27,1%), Bersani secondo (25,4%), e Marino quarto (15,2%) (Repubblica 15.07.2009, pag. 12).

Il fascino in fumo

Nella vita reale o in quella virtuale a molte persone di sinistra succede di essere sfidate da conoscenti di destra su un tema che richiede un po’ di tempo per riflettere: tutti, anche i più cattivi, sanno fare qualcosa di buono: voi siete capaci di riconoscerlo a Berlusconi? Quando la sfida è toccata a me, ho risposto di sì. Nell’immediato non mi è venuto in mente nulla, poi, pensa che ti ripensa, ho trovato: la legge Sirchia, quella che vieta di fumare nei locali pubblici a tutela dei non fumatori oppressi dal fumo passivo. Una legge di civiltà, un importante traguardo nella legislazione antifumo.
Se non ricordo male, il primo divieto risale al 1975. Riguardava i mezzi pubblici e i cinema. Il divieto fu rispettato, forse a suon di multe, ma divenne presto parte della mentalità comune e non era scontato. Mi viene in mente mio padre che, pur essendo fumatore, rimproverò un passeggero sul tram con la sigaretta accesa e questi reagì ridendo, come fosse una cosa ridicola, pignola, prendere il rispetto della legge. Legge voluta da quale partito? Chiese retoricamente. Negli anni ’70 tutto era politico e ideologico, anche il modo di schierarsi rispetto al divieto di fumare. Oggi, ma ormai da molti anni, accendere una sigaretta sul tram, sul pullman, sul metrò, sul treno, su qualsiasi mezzo pubblico, significherebbe fare la figura del barbaro o del pazzo e susciterebbe una protesta collettiva.

La consapevolezza dei pericoli che il fumo comporta per la salute è cresciuta, ma non saprei dire se in modo determinante. I fumatori, pur dichiarando di saperlo, vedono il pericolo in modo differito e sperano di farla franca. I non fumatori, reagiscono per la puzza oppure perchè avvertono subito qualche segno di malessere, per esempio un leggero mal di gola. Quello che è cambiato è lo status del fumatore, l’associazione di idee. Se prima il fumo era associabile al fascino, al modo d’essere intellettuale o erotico, oggi è associabile soprattutto alla puzza, all’alito pesante, alle dita ingiallite, poi certo anche alla storia di qualche malato di tumore.

Se ripenso alla mia storia di fumatore, mi sembra che il percorso sia durato almeno vent’anni. Ho iniziato a fumare a 14 anni, nel 1980, insieme alla mia banda del muretto. La prima volta mi fece schifo, ma non mi diedi per vinto. Diventavo adulto, ero come mio padre, come i miei amici più grandi e con le sigarette avvicinano pure le ragazze, anzi erano loro che si avvicinavano a me, per scroccare. A scuola, durante l’intervallo, era tutto uno sfumazzamento, e con la sigaretta gli studenti si mettevano in pari con i professori. A fumare erano i leader della Fgci e, tra gli altri, ricordo un personaggio fascinoso come Lucio Magri, un fumatore da competizione, irriducibile a qualsiasi divieto, credo consumasse tre pacchetti al giorno.

In realtà, era dubbio io fossi un autentico fumatore. Fumavo sigarette leggere e non mandavo giù il fumo nei polmoni. Forse ero un fumatore di pipa. Me ne convinsi ammirando la figura di Luciano Lama, all’epoca segretario generale della Cgil, all’epoca il simbolo dei fumatori di pipa, il “ministro delle pipe” lo sfotteva Alighiero Noschese nelle sue imitazioni. Ed io mi comprai una Peterson a 17 anni, per essere come Lama, sotto lo sguardo scettico del tabaccaio. Si impara per imitazione, lo stesso Lama apprese imitando il fumatore di pipa Bruno Trentin.

A quell’età avevo la passione degli Spaghetti Western e così sulle note di Ennio Morricone assaporavo anche i toscani, immaginando Clint Eastwood. Una sofferenza, ma se ce l’avevo fatta con le sigarette e la pipa, ce l’avrei fatta anche con i sigari. D’altra parte, fumare aiutava a rilassarsi, ad aspettare il proprio turno, ad ascoltare con tolleranza le idee diverse, a far arrivare il pullman, a curare la stitichezza. E se non era vero, il fatto di esserne convinto comunque aiutava. Finchè, un bel giorno, la mia fidanzata, mia futura moglie, venne a convivere con me, e mi impose di smettere, perchè lei non voleva saperne di cattivi odori. Siamo verso la fine degli anni ’90. Ma il declino della sopportazione altrui era iniziato molto anni prima, nelle riunioni di partito. Nel 1982-83, al circolo e in Federazione si fumava sigarette normalmente. Nel 1986-87, mi sembrava di fare un figurone con la pipa, o almeno gli altri me lo lasciavano credere, ma già nel 1990 mi accadeva si suscitare proteste e una volta persino di essere allontanato. Dunque, cominciai per diventare un leader, intellettuale e affascinante, e finii per essere un maleducato puzzolente e inquinante. L’atto di fumare, quei gesti di stile, venivano fraintesi per comportamento molesto e a quel punto non ne valeva più la pena.

Al contrario di molti ex fumatori, per molti anni ancora, non mi sono mai mostrato intollerante verso gli irriducibili, anzi ogni tanto avevo cura di scroccare, così giusto per mostrare empatia e condivisione, oppure garbatamente dichiaravo di non provare fastidio. Finchè non lessi di una signora impiegata alla Regione Lazio, mai fumatrice, morta di cancro ai polmoni, a causa del fumo dei suoi colleghi. Ammalatasi, fece causa alla Regione e vinse. Una obiezione comune dei fumatori è che il fumo è nulla rispetto allo smog, ma non è vero ed è comunque una contrapposizione priva di senso: l’inquinamento uccide ottomila persone l’anno in Italia, il fumo ne uccide ottantamila. Dunque, come non approvare la legge Sirchia, il divieto di fumo nei locali pubblici? Mi sembra un provvedimento elementare, naturale. Eppure, la reazione di molti fumatori, è stata arrogante, offesa, vittimistica, come se si trattasse di un attentato alla loro libertà personale. Da allora, la mia empatia nei confronti dei fumatori si è spenta nel posacenere e oggi vedo con favore tutte le norme volte a limitare il fumo, anche negli ambienti all’aperto come i giardini o le stazioni, dove di passaggio o in sostanza si può infastidire chi non fuma, specie le donne gestanti e i bambini o persone malate d’asma.