Teresa Lewis giustiziata da un boia migliore?

Teresa Lewis è stata giustiziata nello stato della Virginia (Usa), condannata otto anni fa con l’accusa di essere stata la mandante dell’omicidio di suo marito e del suo figliastro. Ahmadinejad aveva paragonato il suo caso a quello di Sakineh, per denunciare il doppio standard dell’Occidente. Anche molti abolizionisti convergono nell’equiparare i due casi, come qualsiasi caso di condanna alla pena capitale.

Succede così che qualcuno si preoccupi di ricordare le differenze, come questo articolo di Carmelo Palma, che frase per frase posso condividere, ma il cui senso complessivo non mi persuade. Troppo preoccupato di difendere l’immagine degli Stati Uniti nel confronto con l’Iran, finisce per mettere sullo sfondo l’imperativo di un rifiuto universale della pena di morte. L’equiparazione tra i due casi infatti riguarda, va da sé, non il procedimento che ha portato alla condanna, ma la condanna.

Tra i due sistemi ci sono importanti differenze (ci mancherebbe!), ma non c’è un’abisso. Lo stato di diritto al pari dello stato autoritario non è legittimato a decidere la pena capitale. Semmai, la pena capitale in uno stato di diritto è ancora più grave. La pena di morte è una condanna assoluta, irrimediabile, che risponde ad un principio, non di giustizia, ma di vendetta e che non è neutrale di fronte alle differenze di razza e di censo. Quasi tutti i condannati a morte in Usa sono neri o poveri.

Mettersi a spiegare che il sistema americano è nettamente migliore di quello iraniano, non è sbagliato, anzi è giusto. Così giusto da risultare persino ovvio e banale. A cosa serve questa spiegazione di fronte all’esecuzione della pena di Teresa Lewis? Nel mandare a quel paese Ahmadinejad? D’accordo. O nell’autorassicurarsi di fronte alle critiche degli abolizionisti? Il paragone con Sakineh, dal punto di vista degli abolizionisti, non vuole significare che i due sistemi sono uguali. Il paragone ha senso proprio perchè i due sistemi sono molto diversi. E trovano però una intersezione comune nella pena di morte. Una interszione che non mette il regime degli Ayatollah in contraddizione con se stesso, ma l’America si.

Riferimenti:
Sakineh dalla pietra alla corda – di Lucia Annunziata
La pena di morte ha due facce – di Umberto Eco

Stracquadanio e il legittimo prostituirsi per far carriera

Giorgio Clelio Stracquadanio, ex portaborse di Tiziano Maiolo ed oggi intellettuale di punta del Partito delle libertà, nel rispondere alla denuncia dell’onorevole finiana Angela Napoli, ha dichiarato: “È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l’intelligenza o la bellezza che siano. È invece sbagliato pensare che chi è dotato di un bel corpo sia necessariamente un cretino. Oggi la politica ha anche una dimensione pubblica. Ci si presenta anche fisicamente agli elettori. Dire il contrario è stupido moralismo”. Ergo per fare carriera prostituirsi è legittimo. Una interpretazione forzata? Ma no: “Se anche una deputata o un deputato facessero coming out e ammettessero di essersi venduti per fare carriera o per un posto in lizza – insiste Stracquadanio ospite di klauscondicio- non sarebbe una ragione sufficiente per lasciare la Camera o il Senato”.

In effetti, nelle puttane che vogliono fare carriera non c’è poi molto di male. Invece c’è molto di male nei puttanieri che vogliono fare la selezione.

Ma devo anche segnalare l’osservazione di un mio conoscente virtuale, che mi è parsa molto arguta. La riporto con le sue parole: “C’è una macroscopica falla nel ragionamento (squallido) dell “onorevole”. La bellezza e’ un valore, come l’intelligenza, e’ vero. Ma eleggere un uomo o una donna intelligente non e’ un premio alla dote, è un modo per mettere al servizio dello stato una qualita’ di una persona. Mettere in parlamento una bella o un bello perche’ ti concede i suoi favori significa mettere quella dote non a vantaggio dello stato ma del capo partito. Lui ci guadagna e il popolo ci rimette“.

La fuoriuscita di Stacquadanio, oltre che rivelare la sua concezione del rapporto tra i sessi, rivela molto anche sulla sua concezione privatistica delle istituzioni. E della democrazia. Si fa carriera non per consenso popolare ma per asservimento ad un potente. E il potente, o un suo portavoce, ci dice che non c’è niente di male.

Qui è la novità. E’ il nuovo della cultura berlusconiana. Che di “cattivo” non ha mai inventato nulla, ma ha inventato un atteggiamento che fin dai tempi di Dallas e Dinasty, rovescia i disvalori in valori. Certe cose si sono sempre fatte, ma sempre pensando che fossero male. Arrivano i berlusconiani e ti dicono invece che non c’è niente di male, anzi c’è pure del bene. E’ morale evadere le tasse, è lecito prostituirsi per fare carriera, etc.

Forse il nome di Stracquadanio resterà indelebilmente legato a questa sua dichiarazione. Un po’ come il nome di Ghedini alla battuta sull’utilizzatore finale. Ma non è detto, poichè egli è un grande dichiaratore, ha già un bel curriculum e ancora molta carriera davanti a sé.

Prese di posizione e controversie

Stracquadanio è anche noto per alcune sue prese di prosizione che hanno generato controversie e polemiche; ha avuto scontri verbali, tra gli altri, con il vicedirettore dell’Unità, Gianni BarbacettoMarco Lillo de Il Fatto QuotidianoMilena Gabanelli, l’attuale presidente del Cda della Rai, Paolo Garimberti, oltre a Luigi Amicone, direttore di Tempi, periodico di Comunione e Liberazione[7].

Intervista ad Il Fatto Quotidiano Il 20 novembre 2009 ha rilasciato un’intervista a Il Fatto Quotidiano in cui ha dichiarato[8]:
  • Un partito dev’essere monolitico per definizione. Se uno non è d’accordo con Berlusconi se ne va
  • alla domanda “Non è giusto che gli elettori scelgano gli eletti?”: “Certo che no. Si illudono che le persone contino qualcosa“.
  • Noi siamo a favore delle leggi ad personam. Sono serissimo. Non servono a difendere il cittadino Berlusconi, ma il suo ruolo politico, scelto dagli elettori.
  • sull’editto bulgaro: “Non l’ho condiviso. La lista doveva essere più lunga
Insulti ad una giornalista dell’Unità Il 27 luglio 2010, durante una conferenza stampa di Denis Verdini su caso P3, interrompe ed insulta Claudia Fusani, giornalista dell’Unità al grido di “Cazzate, lei dice cazzate[7][9]

Invocazione del trattamento Boffo per Fini Il 31 luglio 2010 ha invocato contro Gianfranco Fini il trattamento Boffo, riferendosi alla vicenda di dossier falsi pubblicati da Il Giornale che aveva portato alle dimissioni del direttore. [10][9]

Contro le proteste dei residenti de L’Aquila Il 7 luglio 2010, in concomitanza delle proteste a Roma dei residenti dell’Aquila per l’immobilismo del governo, ha affermato in Senato che “quella era una città che stava morendo, indipendentemente dal terremoto ed il terremoto ne ha certificato la morte civile“. Il Terremoto dell’Aquila del 2009 ha provocato un totale di 308 vittime[7]. Il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente ha sporto querela[11].

Contro i cassintegrati della Vynils Intervistato su Rai3 sul caso della crisi industriale della Vynils, il 5 settembre 2010 ha risposto ad un cassintegrato che aveva criticato l’inattività del governo: “Macché, la colpa è del fatto che fate lavorazioni troppo care“. La conduttrice Bianca Berlinguer l’ha richiamato: “Ma lei sa di che parla?[7].

A favore della prostituzione in politica A seguito della denuncia di Angela Napoli sulla prostituzione di alcune colleghe politiche in cambio di cariche pubbliche[12], ha dichiarato: “È assolutamente legittimo che per fare carriera ognuno di noi utilizzi quel che ha, l’intelligenza o la bellezza che siano. È invece sbagliato pensare che chi è dotato di un bel corpo sia necessariamente un cretino. Oggi la politica ha anche una dimensione pubblica. Ci si presenta anche fisicamente agli elettori. Dire il contrario è stupido moralismo”.[13][14]


Riferimenti:
Stracquadanio: “Legittimo usare corpo se si vuole fare carriera in politica”
Se si usa il proprio corpo per fare carriera (Corrado Augias)
La carriera delle donne e la voglia di reagire (Corrado Augias)
Il moralista (Sabina Ambrogi)
Speriamo non sia femmina (Ida Dominijanni)

La classe dirigente? “Una questione di tette” (Intervista a Paolo Guzzanti)

Vespa, Avallone e il decolleté

Al premio letterario di Campiello, in diretta televisiva, Bruno Vespa ha invitato il cameraman a inquadrare il decolleté di Silvia Avallone.

Un’altra scrittrice vincitrice, Michela Murgia ha censurato l’episodio. Quale che sia la sua arte, una donna in televisione viene trattata come se fosse una velina a disposizione di tutti. Comportamento deplorevole anche nei confronti di una velina.

Le reazioni sfavorevoli a Michela Murgia si attestano su queste posizioni: 1) Vespa è stato inopportuno, ma non è il caso di farne un caso. Finanche la protagonista Silvia Avallone ha dichiarato qualcosa del genere. 2) Vespa è un uomo naturalmente attratto da un bel corpo femminile, se esprime il suo apprezzamento non gliene si può fare una colpa. 3) Silvia Avallone si è presentata sul palco con un vestito scollacciato. Evidentemente voleva essere vista e apprezzata. 4) Silvia Avallone non ha reagito male agli apprezzamenti di Vespa, perchè altri dovrebbero farle da tutrice?

Un caso diventa un caso quando rappresenta qualcosa di più grande che va oltre la sua contingenza. Il Vespa che magnifica pubblicamente le tette dell’Avallone è il conduttore di una televisione che per fare audience sfrutta intensivamente ed estensivamente tette e culi femminili. E’ la televisione che ha ispirato il documentario “Il corpo delle donne“. Vespa è anche il giornalista che fa riferimento a Silvio Berlusconi, l’uomo politico che attraverso battute, frequentazioni, selezioni e scandali, ha amplificato un dicorso pubblico sulla donna fondato su principi maschilisti e misogini. L’uso e il discorso pubblico sulla donna, nello spettacolo e nella politica, si innestano sulla società italiana, la più diseguale d’Europa nel rapporto tra i sessi. Dunque, se può essere considerata “normale” la battuta di Vespa, in questo contesto può altrettanto normalmente suscitare irritazione.

Se è naturale per un uomo manifestare la sua attrazione per una donna, non è civile manifestarla in qualsiasi modo e in qualsiasi occasione. Specie se l’uomo in questione ha la responsabilità di gestire una situazione, i rapporti tra le persone, il rispetto dei ruoli. Il ruolo di Silvia Avallone sul palco del Campiello non era quello della preda sessuale. Per valutare l’inopportunità di Bruno Vespa basta fare due prove inconfutabili: immaginare lo stesso tipo di apprezzamento rivolto a Silvia Avallone accompagnata dal suo fidanzato; oppure immaginare Bruno Vespa invitare il cameraman a inquadrare le tette di sua moglie. Improbabile, vero? In entrambi i casi, il confine del rispetto sarebbe chiaro anche all’estimatore molesto e ai suoi fans.

Nel modo di vestire di una donna possono esserci tante motivazioni, tanti significati. Non siamo autorizzati a presumerli dandoli per scontato come segnali di indistinta disponibilità. Può esserci l’adesione ad un modello, l’imperativo di piacere e di corrispondere alle aspettative maschili in astratto: una donna si veste così. Può essere il piacere di piacere a se stessa. Può essere il piacere di piacere a qualcuno in particolare. Tutte cose molto diverse dall’intendersi e darsi disponibile a chiunque porti i pantaloni. La cui richiesta di inquadrarne il pacco è immaginabile solo in una gag comica.

Allora ci facciamo tutori di Silvia Avallone? No, siamo solo commentatori critici di un fatto pubblico avvenuto di fronte a milioni di telespettatori. Anche a me piace guardare un bel decolleté, pur cercando di farlo con discrezione. E’ naturale, ma proprio perchè naturale, perchè mai dovrei aver bisogno della sollecitazione di Bruno Vespa? Se questa arriva, la commento. Se assisto ad un comportamento che giudico discriminatorio, penso che l’offesa vada oltre la persona coinvolta al di là del suo modo di incassarla. Per quanto la strada sia in salita, è tempo che anche in Italia, il maschilismo in tutte le sue forme, inizi a fare i conti con una esplicita disapprovazione sociale.

E’ tempo, dando tempo al tempo. “Ilary Blasi si è offesa perché le ho chiesto di mettersi la gonna a Porta a Porta? Faccio pubblica ammenda. Ma se invitiamo in trasmissione una showgirl pensiamo si vesta sbarazzina”. (Bruno Vespa, Ansa 21 settembre).

Genitori in tarda età

Diventare genitori in tarda età suscita è qualcosa che disorienta, anche se l’età media della genitorialità sta avanzando. Quando un caso balza agli onori della cronaca, come quello recente di Gianna Nannini, molti commenti sono sfavorevoli in base a vari argomenti: la violazione dei limiti della natura, l’egoismo come motivazione prevalente, la vecchiaia come impedimento per assistere i figli.

Genitori per egoismo però si può essere ad ogni età, anche da giovani oppure a nessuna. Genitori limitati si può essere anche a venti, trent’anni, quando si è presi da se stessi, dal lavoro, dalla carriera, e non si ha ancora sufficiente maturità e disponibilità emotiva per empatizzare con i propri bambini, magari affidati ai nonni. La vita media si allunga e diventa impensabile viverne quasi meta nella condizione psicofisica dei vecchi e il nostro modo di vivere, vuoi per le difficoltà economiche, vuoi per le opportunità di carriera, non facilita la generazione dei figli da giovani. A cinquant’anni puoi iniziare ad essere un genitore, ma non un professionista. Senza possibiltà di conciliazione tra lavoro e famiglia, i figli nella prima parte della vita sono rimandati a tempi migliori.

Allora, in attesa di alternative nell’organizzazione sociale, non è un male se la scienza medica interviene per forzare i limiti della natura in tarda età. Limiti che non sono poi così ristretti. Le donne vanno in menopausa in media all’età di 52 anni e gli uomini possono generare in teoria fino alla fine della loro vita. Gran parte della nostra esistenza, nel bene e nel male, è caratterizzata dall’intervento umano che modifica la natura, dalla gestione dell’ambiente a quella dei nostri corpi. Molti di noi, lasciati al corso della natura, sarebbero morti più di una volta. Lo stesso intervento umano è parte della natura. Quel che bisogna valutare è se tale intervento favorisce o danneggia la sopravvivenza.

Gli imprenditori sono sfruttatori

Gli imprenditori sono sfruttatori. Lo scrivo senza avversione nei loro confronti. Non è un giudizio morale, è una candida constatazione. E’ il loro modo di operare in un sistema economico fondato sullo sull’asservimento del lavoro altrui. La stessa parola imprenditore è un modo gentile di chiamare il padrone. Gentilezza ricambiata quando il padrone chiama “collaboratore” il suo dipendente. Per quanto il rapporto tra padrone e dipendente (o tra imprenditore e collaboratore) possa essere ingentilito, incivilito e regolato, resta comunque un rapporto di asservimento e di espropriazione. Se così non fosse quel rapporto entrerebbe in crisi e si spezzerebbe.

Il lavoratore offre all’imprenditore il suo lavoro. L’imprenditore in cambio gli dà un salario. Questo scambio non è di uguale valore, non può esserlo. Se il lavoro vale meno del salario, l’imprenditore va in fallimento. Se il lavoro vale quanto il salario, l’imprenditore va in pareggio. Se il lavoro vale più del salario, l’imprenditore va in attivo. Questo attivo è il profitto. Che si può fare appunto solo se il lavoro vale più del salario, cioè solo mediante sfruttamento. Ridotta ai minimi termini è la teoria del plus-valore di Karl Marx.

Il profitto viene reinvestito e questo giustificherebbe l’espropriazione del lavoratore di parte della ricchezza da lui prodotta. Quanto viene reinvestito e in cosa però lo decide solo l’imprenditore con l’ausilio del suo management. Parte del profitto sarà reinvestito nella produzione, una parte in operazioni finanziarie, e una parte nel consumo di lusso, dalle ville agli yacht.  Anche un’azienda statale o cooperativa è capace di fare profitto e di reinvestirlo. Il diverso assetto proprietario potrebbe anzi meglio garantire l’interesse pubblico nelle finalità del reinvestimento.

Con il crollo dell’Urss, ma anche con la fine del sistema di potere clientelare democristiano, il modello dello stato imprenditore è disprezzato e considerato per efficienza inferiore al modello dell’imprenditore privato. Ma quel sistema, nonostante il suo insuccesso considerato “definitivo”, non ha sempre fatto schifo. L’Italia dell’Iri è stata l’Italia della ricostruzione e del boom economico. Il modello sovietico, per quanto esecrabile ha permesso l’industrializzazione di un grande paese e la vittoria nella seconda guerra mondiale. In tempo di guerra, quando l’esigenza di razionalità ed efficienza sono massime, è lo stato ad assumere la direzione dell’economia. Le poste, le ferrovie, la sanità di norma funzionano meglio come servizi pubblici.

Non vi è motivo di pensare a priori, che uno stato democratico, con un sistema di alternanza, non possa essere un buono stato imprenditore e insieme un regolatore di sistemi pubblici locali e cooperativi. Quando una importante azienda o una importante banca vanno in rosso è lo stato che ripiana i debiti, è la socializzazione delle perdite a riparare i danni. Dunque, perchè non socializzare anche gli utili? La Fiat è stata comprata un sacco di volte dallo stato, perchè deve continuare ad essere privata, perchè deve poter mettere lo stato e i lavoratori con le spalle al muro, con il ricatto di poter andare altrove dove i lavoratori si fanno sfruttare di più, senza vincoli sindacali ed ambientali e permettersi di non applicare le sentenze della magistratura che dispongono il reintegro dei lavoratori licenziati per rappresaglia sindacale?

Il privato sarebbe mosso da incentivi che il pubblico non può avere. Perchè un politico non dovrebbe avere interesse a che l’azienda pubblica vada bene? Se fa buoni profitti, può finanziare i servizi, investire nelle infrastrutture, aumentare i salari, avere più consensi, ed essere così rieletto. Perchè invece questo dovrebbe essere comunque l’interesse di un manager privato che quando fallisce se ne va con buone uscite multimilionarie, dopo aver accumulato compensi da capogiro e stock options? Oggi esiste il vincolo di bilancio. Ogni anno, per risanare i conti lo stato approva leggi finanziarie che tagliano le spese e aumentano le tasse. Perchè non sarebbe più proficuo avere delle imprese pubbliche che creano profitto? E con tale profitto risanare il debito, finanziare le opere, i servizi, creare posti di lavoro e magari persino abbassare le tasse? Dipende dalla qualità della classe politica, così come l’andamento delle imprese private dipende dalla qualità degli imprenditori, ma non credo che, oltre a questo, ci sia una legge di natura per cui l’impresa pubblica non possa essere al livello, e anche meglio, di una impresa privata. Enrico Mattei aveva meno inventiva di Vittorio Valletta? Non capisco bene il meccanismo per cui lo stato non possa fare bene quello che fa un imprenditore. Si diceva agli albori delle privatizzazioni: «Lo Stato non deve fare i panettoni!». Ma perchè è meglio che li faccia la Nestè? Con gli ogm.

Lo stato dell'identità

I musulmani devono dissociarsi dal terrorismo islamista, gli ebrei dalle guerre e dalle rappresaglie di Israele, altrimenti non si può dar torto a chi li considera complici? Gli si dà torto lo stesso, tuttavia si può comunque ragionare intorno al modo più opportuno di far fronte a quel torto, a come evitare di prestargli alibi. Chiedere ai musulmani di dissociarsi dal terrorismo islamico, non è in linea di principio una cosa sbagliata. Dipende con quale intenzione lo si fa, in quale modo, per ottenere esattamente che cosa, e a quali precisi interlocutori ci si rivolge. Ovvio che se la richiesta è animata da autoritarismo, islamofobia, inquisizione, è da respingere. Nè ha senso rivolgere la richiesta a singoli individui i quali si caratterizzano solo per la conduzione di una normale vita quotidiana. Nè può essere adeguato pretendere la sottoposizione ad atti simbolici (giuramenti, condanne). Però, nel momento in cui il terrorismo si legittima con l’islam, può avere un senso rivolgersi alla società civile islamica, per chiedere di delegittimare il terrorismo. Quindi, rivolgendosi alle comunità, alle associazioni, i cui scopi sono di rappresentanza, per capire se e quale contributo possono dare, secondo la loro volontà, disponibilità, sensibilità, orientamento. Questo secondo me è legittimo. Questo in parte già avviene. Avviene anche spontaneamente, perchè nell’islam vi è già (non da oggi) una conflittualità interna, un contenzioso identitario. Come anche un complesso di legittimazione. La richiesta di delegittimare il terrorismo viene prima di tutto dall’interno dell’islam.

Qualcosa del genere avveniva tra i comunisti. Di fronte al terrorismo delle Brigate Rosse, la posizione del PCI non era quella di un qualsiasi altro partito. Il PCI, nella lotta al terrorismo combatteva non solo contro i terroristi, ma anche per la difesa della propria identità e della propria legittimazione, poichè quelli agivano in nome del comunismo. Disse Alessandro Natta, dirigente storico, esponente del fronte del No alla Bolognina, che fu quella l’unica volta che pensò seriamente al cambio del nome.

Un’altra analogia, più pertinente al rapporto tra ebrei e Israele è il rapporto tra i comunisti e l’Unione sovietica. Faccio subito salva una differenza: ebrei si nasce, comunisti si diventa e se ne è responsabili. Tuttavia, tante dinamiche sono somiglianti. Abbiamo uno stato che realizza un ideale e che si ammanta di una identità ideologica. In un primo tempo è l’ideologia a dare una identità allo stato, ma successivamente è lo stato a determinare quella identità ideologica, a dare cioè una identità, un senso all’ideologia. (l’Urss come Israele). Abbiamo organizzazioni che nei vari paesi si ispirano all’ideologia di quello stato e di conseguenza ne difendono la ragion di stato. Sono, nei vari paesi, i rappresentanti di quello stato. (I partiti comunisti come le comunità ebraiche). Abbiamo correnti politiche avversarie che usano gli errori, i difetti, gli atti condannabili di quello stato, come proprio principale argomento di battaglia. (L’anticomunismo come l’antisemitismo). Abbiamo un’autopercezione comune allo stato e ai suoi rappresentati nei vari paesi, che si sentono accerchiati dal resto del mondo, sempre nel mirino di una propaganda avversa che monopolizza l’informazione. Abbiamo i dissidenti, gli eretici, gli oppositori interni al movimento, che vedono negli errori, nei difetti, negli atti condannabili dello stato, il punto di maggior debolezza, esposto all’iniziativa degli avversari (I comunisti antistalinisti come gli ebrei antisionisti). Entrambi giudicati al soldo del nemico, quinta colonna interna, utili idioti, etc.

I nemici certamente usavano il legame di ferro con l’Urss per delegittimare i comunisti, ma tanti amici e potenziali alleati, consigliavano, chiedevano ai comunisti di smarcarsi da quel legame, finchè all’interno stesso del partito si fece strada questa posizione, anche per senso di opportunità.Resta da ve dere quante speranze ha l’impresa di essere compiuta. Per me, nessuna. Una cosa è delegittimare le BR o Al Qaeda, altra cosa è delegittimare uno stato, il quale riceve, ma soprattutto dà identità. Finita l’Urss è finito anche il comunismo, e si è sciolto anche il più diverso e autonomo dei partiti comunisti occidentali, perchè in tutto il mondo, l’Urss era, fra tutte, la cosa più importante del comunismo, che dava un senso a tutto l’insieme. Israele è una funzione simile nei confronti dell’ebraismo. E’ la sua cosa più importante, che dà un senso a tutto il resto. Qui, la penso come Amos Luzzatto: “Israele non serve per darci la sicurezza, serve per darci una identità”. E nella contrapposizione identitaria, la chiesa, lo stato, l’istituzione vince sempre. Se si può si riforma, altrimenti prima o dopo crolla e trascina con sè tutto il resto.

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Quale che sia la realtà di riferimento, quasi sempre abbiamo a che fare con realtà plurali. Anche il comunismo lo è stato, così come lo è ciò che ne resta. Oggi in Italia abbiamo almeno cinque partiti che si richiamano al comunismo, più varie sigle minore, divise in varie correnti al loro interno. E ciascun gruppo, ma anche ciascun singolo, inteviene dicendo quel che secondo lui i comunisti devono o non devono fare. Pena questa o quella catastrofe. Anche se non se ne accorge nessuno, ma qualche volta si, questi interventi vengono fatti anche in spazi pubblici. Ma succede così in tutte le aree politico culturali. Per cui c’è sempre qualcuno che dice cosa devono fare i laici, i cattolici, i liberali, i riformisti, gli ambientalisti, etc. A volte il discorso è interno, a volte è pronunciato all’esterno ma rivolto all’interno, a volte è indirizzato all’interno per parlare all’esterno. Tipo la lettera aperta. Ti scrivo un lettera aperta perchè in realtà voglio che la leggano tutti. Poi se la leggi anche tu tanto meglio. Si fa solo per ciò che riguarda la politica interna? Dipende. L’interesse nazionale può entrare in gioco anche in politica estera. Oppure, la concezione di chi si pronuncia è quella cosmopolita internazionalista, per cui non c’è sostanziale soluzione di continuità tra politica interna e politica estera. I comunisti si sono sempre fatti i fatti loro oltre i confini nazionali. Per cui il tal partito del tal paese criticava il partito fratello per la sua politica interna, perchè troppo dura, perchè troppo morbida. Il PCI veniva sempre interrogato sull’Urss. E a sua volta ribatteva interrogando sugli Usa.

Gli ebrei non si sentono rappresentanti di Israele? Questo io non lo so. Posso dire che gli ebrei che conosco io, prevalentemente in rete, si comportano come se lo fossero. Simpatizzano, solidarizzano, si identificano. Posso fare una ipotesi. Vi sono persone che vivono la propria identità nella sfera privata e altre che la vivono e la proiettano nella sfera pubblica. Secondo me, questi ultimi si caratterizzano quasi sempre per una presa di posizione a favore o contro Israele. Generalmente a favore. E per me, è un loro sacrosanto diritto. Tuttavia, insieme con questo e proprio per questo, esiste il diritto di interloquire. Data una intervista come questa dal primo rappresentante della Comunità ebraica, io mi permetto di interloquire. Che può significare: consentire, dissentire, obiettare, suggerire, etc. A me, personalmente, non interessa che la Comunità ebraica si pronunci su Israele, più di quanto possa interessarmi il pronunciamento di chiunque altro, però nel momento in cui lo fa, nel momento in cui anzi è lei a chiedere a me di farlo, mi pronuncio anch’io, critico e commento. Eventualmente, indico pure un’alternativa. Non si tratta di un intervento che irrompe in un quadro dove ciascuno si fa tranquillamente gli affari suoi. Il quadro è quello in cui i rappresentanti delle Comunità ebraiche vanno dai sindaci a chiedere di illuminare il loro più importante monumento per richiedere il rilascio dell’unico prigioniero israeliano in mani palestinesi. Semmai considero illusorio il discorso che chiede agli ebrei di dissociarsi da Israele per non alimentare l’antisemitismo. Data una forte identità politico, nazionale, territoriale, dell’ebraismo, a 60 anni dalla fondazione di Israele, non c’è dissociazione che tenga. Se anche si realizzasse l’euroebraismo (come l’eurocomunismo), l’eventuale futura sconfitta di Israele cadrebbe comunque sulla testa di tutti gli ebrei, così come il muro di Berlino è caduto sulla testa di tutti i comunisti e forse di tutte le sinistre, quali che fossero le distinzioni e le dissociazioni. Infatti, facevo il tifo per la Perestroijka.

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Non ritengo di avere paragonato una identità (etnico)religiosa ad una  identità politica. Ho proposto una analogia nel rapporto tra comunisti e Urss e tra ebrei e Israele. Lo stato cattolico, la patria del socialismo, lo stato ebraico, la repubblica islamica, sono concetti somiglianti. Vi è una entità statuale e vi è una identità che la qualifica, una identità ideologica o religiosa. Capisco che all’essere ebrei si attribuisce anche un connotato etnico. Loro stessi se lo attribuiscono (tutti?) nell’autopercezione di essere un popolo. Credo questa sia una questione irrisolta. Un ebreo iracheno è della stessa etnia di un ebreo americano? Tuttavia, anche l’attributo di una identità etnica ad uno stato può avere un significato simile a quello dell’identità ideologica o religiosa, nel momento in cui vuole avere significato escludente.

Se al di fuori degli stati “identitari”, negli altri paesi, si formano comunità che si richiamano all’identità di quegli stati, o che comunque hanno la stessa identità di quegli stati, secondo me, tali comunità stabiliscono rapporti analoghi. Così come una identità ideologica, religiosa, etnica, o di altra definizione può costituire il fondamento (anche solo mitico) di uno stato, può allo stesso modo costituire il fondamento di una associazione e di una attività politica. Si può essere militanti etnici, religiosi, ideologici, etc. per rappresentare nello spazio pubblico quella specifica identità. Viceversa, è possibile avere una identità politica e non fare politica. Ho le mie idee, dò il mio voto, ma non ne parlo con nessuno.

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E’ lecito citare l’antisemitismo per orientare gli ebrei (quelli impegnati nel dibattito politico, quelli che si danno o che ricevono una funzione di rappresentanza)? Dipende. “Ebrei” è una espressione onnicomprensiva dell’insieme degli ebrei. Ma questo genere di espressioni si usa per comodità espositiva. Si fa lo stesso nei confronti di qualsiasi insieme, dai cattolici alle donne. I cattolici devono rispettare la laicità dello stato, le donne devono uscire dal silenzio, etc. L’importante è che l’interlocuzione sia corretta e non offensiva. Insomma, dipende sempre da chi fa che cosa, come, perchè, quando e in quale situazione. Il giusto principio è un criterio per orientarsi nel mondo, al fine di dare il giusto giudizio. Non è il giudizio già bello e pronto.

Cito ad esempio, due modalità. Una vuole ragionare dal punto di vista dell’interlocutore. Sua preoccupazione è l’antisemitismo. Lui sostiene le sue idee proprio in opposizione all’antisemitismo. Difendere Israele serve a difendere la sicurezza degli ebrei in tutto il mondo. Gli si può far notare (se lo si pensa) che proprio questa sua posizione determina una condizione favorevole all’antisemitismo, poichè confonde gli ebrei con Israele inducendo in confusione anche gli oppositori di Israele. Un’altra modalità vuole semplicemente usare un argomento polemico. Tu mi dici che la mia critica ad Israele è antisemitismo? Io ti dico che è la tua difesa di Israele a favorire l’antisemitismo.

Sono queste, modalità interlocutorie legittime, come pure è legittimo ritenere che l’antisionismo non si confonderà con l’antisemitismo solo se gli ebrei saranno capaci di non confondersi con Israele. Legittime, non vuol dire necessariamente giuste. Dato il pluralismo del mondo ebraico, esisterà sempre una sua parte a fianco di Israele. E dato l’ineliminabile principio di proprietà transitiva in larga parte dell’umano modo di pensare, essa sarà sufficiente per coinvolgere tutti gli altri. La stessa identità ebraica della più importante delle istituzione ebraiche sarebbe a questo proposito sufficiente, nell’ipotesi irrealistica di una diaspora ebraica compattamente antagonista allo stato ebraico. L’ebreo che si dissocia può salvarsi dall’antisemitismo “politico”, ma non da quello che crede nei protocolli dei savi di sion o che lo accusa di deicidio. Inoltre, l’ebreo che si dissocia dallo stato ebraico, può sempre poi associarsi a qualcos’altro di “sbagliato”. L’anticomunismo infierisce anche sul presidente degli Stati Uniti quando fa una timida riforma sanitaria imperniata sul principio del “pubblico”.