Le forme di lotta dei no-global al G8 di Genova 2001

Le narrazioni filogovernative o più indulgenti verso il governo dell’epoca, se e quando ammettono gli eccessi della polizia durante le giornate del G8 di Genova 2001, considerano comunque questione principale la violenza dei manifestanti, con tanto di estintori e passamontagna. Come se l’uccisione di Carlo Giuliani, le tante cariche indiscriminate, l’aggressione nel sonno alla scuola Diaz e le sevizie di Bolzaneto fossero derubricabili alla stregua di una esagerazione.
Gli stessi manifestanti scesero in piazza una settimana dopo, in tutte le città italiane, contro la repressione di Genova. C’era molta rabbia e indignazione, ma la polizia era quasi invisibile e non successe nulla. Altra grande manifestazione a Firenze, nel 2002, del Social forum europeo. Polizia invisibile, nessun incidente. L’estintore, guardando la sequenza dei fotogrammi di Piazza Alimonda, è stato probabilmente lanciato la prima volta dal defender contro i manifestanti. Il passamontagna negli anni ’90 era un copricapo tipico delle manifestazioni dei centri sociali, era copricapo del Subcomandante Marcos, così come negli anni ’80 era un copricapo diffuso nei cortei la keflah di Arafat.

Riguardo le forme di lotta del movimento, provo a fare questa mappa.

I no-global sono non violenti e rifiutano pure l’etichetta di no-global. Preferiscono quella di “altermondialisti”. L’etichetta no-global è una semplificazione giornalistica, ha origine dal nome della rete di Francesco Caruso arbitrariamente esteso a tutto il movimento. Il principio è: noi siamo contro questa globalizzazione liberista a senso unico, non contro la globalizzazione in sè, anzi rivendichiamo una globalizzazione dei diritti.

Il Genoa Social Forum che raccoglieva tutte le associazioni manifestanti contro il G8 assumeva la non violenza come discriminante per la partecipazione al movimento. Nessuna violenza contro cose o persone, per nessun motivo. A questa impostazione aderirono centinaia di migliaia di persone.

A Genova, il 21 luglio c’erano 700 mila persone, la città era completamente paralizzata, gli spezzoni dei cortei erano quasi immobili. Ricordo di avere passato ore, fermo nella calca dei manifestanti, sulla strada del lungo mare. Ogni tanto, fuggivamo tutti, con il rischio di essere travolti e schiacciati, perchè molto più avanti partivano le cariche. Si fuggiva in tanti senza sapere esattamente da dove arriva il pericolo e dove poter ripararsi. I fotoreporter mostravano video impressionanti di persone inermi caricate dalla polizia. Ricordo l’immagine di una donna di 60 anni, stesa per terra con la faccia coperta di sangue.

Poi c’erano le tute bianche, il 30 per cento dei centri sociali. I centri sociali tutti insieme forse facevano 10-20 mila persone. Le tute bianche dicevano: ok, nessuna violenza, per nessun motivo. Però, simuliamo. Facciamo la violazione simbolica della zona rossa, parliamo un linguaggio incendiario: “dichiarazione di guerra all’impero”, etc. Per me, era un comportamento irresponsabile che avrebbe prestato alibi alla repressione. Per loro, invece, era un comportamento opportuno perchè avrebbe permesso di incanalare in una protesta simbolica, una violenza potenzialmente autentica.

Poi c’erano il resto dei centri sociali, raccolti nel Network antagonista, i quali dicevano: va bene, nessuna violenza, però se la polizia ci attacca noi ci difendiamo. Questa è l’area di cui facevano parte Giuliani e i ragazzi intorno al defender di Piazza Alimonda.

Poi c’erano i black bloc, esterni al movimento, che non erano interessati alla zona rossa, ma solo alla devastazione della città. Con un particolare tutto italiano. Mentre nel resto d’Europa, i black bloc distruggevano in modo selettivo, mirando ad obiettivi di “classe”: banche, sedi di multinazionali, bersagli di lusso, a Genova erano interclassisti, distruggevano di tutto anche le utilitarie. Il motivo di questa differenza tra Italia e Europa è rimasta un mistero, salvo attribuirla a infiltrazioni della polizia e di formazioni dell’estrema destra.

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La Corte di Giustizia Europea sul caso Giuliani

La Corte di giustizia europea sul caso Giuliani

La Corte di Giustizia Europea ha stabilito che l’omicidio di Carlo Giuliani è avvenuto per legittima difesa. Ma, al tempo stesso, ha espresso quanto segue:

«La Corte, deplorando l´assenza di un´inchiesta nazionale sulla questione, è nell´impossibilità di stabilire l´esistenza di una correlazione diretta e immediata tra le negligenze che hanno potuto riguardare la preparazione o la condotta delle operazioni di gestione dell´ordine pubblico e la morte di Carlo Giuliani».

Una sentenza molto discutibile per quel che riguarda la legittima difesa. Non esiste neppure la certezza che a sparare sia stato Mario Placanica, il quale ha offerto più volte versioni diverse di quel tragico fatto. Nè è dimostrato che i carabinieri si trovassero, al di là della loro possibile percezione, in una posizione di reale pericolo mortale, rispetto a quanto è successo in molti conflitti tra manifestanti e forze dell’ordine in quella e altre manifestazioni.

Appena due settimane prima, gli operai dell’Ansaldo occuparono il Consiglio Regionale. Intervenne la polizia per sgomberarli, ne seguì una colluttazione. Ben otto poliziotti finorono all’ospedale. Ebbero, quindi, sorte peggiore dei carabinieri di Piazza Alimonda. Durante, gli anni ’50 e ’60, ai tempi della Celere di Scelba, l’oggettivo pericolo in cui venivano a trovarsi poliziotti rimasti isolati, era spesso usata come motivazione, per giustificare l’omicidio di manifestanti. Le forze dell’ordine deputate all’ordine pubblico in una manifestazione, non dovrebbero essere armate, meno che mai essere autorizzate a sparare. C’è da ricordare, a proposito di Genova, che esponenti del governo, amplificarono iil messaggio secondo cui la polizia era autorizzata a sparare. Questo come poteva tradursi nella testa di un giovane e inesperto poliziotto o carabiniere, magari preparato psicologicamente ad affrontare in piazza qualcosa di simile al terrorismo?

Quel che è certo, è che l’archiviazione del processo ha evitato il pubblico confronto con le perizie di parte civile.

Condivisibile, invece, la parte relativa alla scarsa pianificazione e gestione in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza e al rimprovero mosso allo stato italiano di non aver indagato adeguatamente per accertare fatti e responsabilità. Bisogna infatti vedere quanta di quella scarsa pianificazione e gestione fu dovuta a incompetenza e quanta alla volontà di creare le condizioni per una repressione generalizzata, che ha avuto il suo apice nell’assassinio di Giuliani, ma si è pure ampiamente realizzata nelle cariche indiscriminate contro cortei autorizzati, nel pestaggio cileno alla Diaz e nelle torture di Bolzaneto.

Il contesto è quello del corteo delle tute bianche, che doveva raggiungere la zona rossa, passando per Via Tolemaide. Quel corteo fu attaccato dai carabinieri. La commissione parlamentare d’indagine accertò che l’attacco era immotivato, poichè, a differenza di quanto affermavano i carabinieri, il corteo era autorizzato. La carica dei carabinieri si realizzò anche con i classici caroselli delle jeep tra i manifestanti. Una parte dei manifestanti reagì alla violenza dei carabinieri. Una jeep, quella di Placanica, si ritrovò isolata nella vicina Piazza Alimonda. Ma sul lato sinistro della piazza, un battaglione di carabinieri rimase a guardare. Qui avvenne l’omicidio. Dopo lo sparo, il defender passò per due volte sul corpo di Carlo Giuliani, senza nemmeno accertare se fosse vivo o morto.

I giornali italiani enfatizzano molto l’assoluzione per legittima difesa, mentre quelli stranieri, hanno mettono l’accento sulle mancanze dello stato italiano. L’Italie coupable d’avoir bâclé l’enquête sur la mort d’un altermondialiste, titola Le Monde.

DI SEGUITO LA TRADUZIONE DEGLI ARTICOLI PRINCIPALI DELLA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA (dal n. 247 al n. 254) CHE RIGUARDANO LA VIOLAZIONE DELL’ART.2 DELLA CONVENZIONE EUROPEA SOTTO L’ASPETTO PROCEDURALE:

247. La Corte rileva in primo luogo che è stata effettuata un’autopsia il giorno successivo al decesso di Carlo Giuliani da parte di due medici nominati dalla procura. Questi hanno constatato che la vittima era stata colpita da un solo proiettile che ne aveva causato la morte. Benché lo “scanner total body” effettuato sul cadavere avesse rilevato la presenza di un frammento metallico conficcato nella testa, i due periti non l’hanno menzionato nella loro relazione tecnica e non hanno estratto il frammento in questione. Nella sua deposizione nel corso del “processo ai 25”, Salvi ha dichiarato di aver tentato di estrarre il frammento di cui si tratta. Inoltre, i proiettili sparati da M.P. non sono stati ritrovati e, peraltro, non c’è alcuna prova che siano stati svolti dei tentativi per ritrovarli. L’analisi di questo frammento metallico sarebbe dunque stato importante per una valutazione balistica e per la ricostruzione dei fatti. Quanto alla traiettoria seguita dal proiettile di cui si tratta, i medici hanno indicato che andava dall’alto verso il basso, da davanti a dietro e da destra a sinistra, e che la distanza dello sparo era stata superiore a 50 cm. Tuttavia, non è stato espressamente precisato se il tiro era stato diretto.
248. Condividendo i dubbi della procura relativi al carattere superficiale delle informazioni raccolte durante l’esame, la Corte reputa deplorevole che il termine di sole tre ore lasciato ai ricorrenti tra la notificazione dell’avviso di autopsia e l’autopsia stessa abbia impedito loro di nominare un perito di parte.
249. Non si può sostenere che l’autopsia svolta o le constatazioni contenute nella relazione medica fossero tali da costituire un punto di partenza per un’indagine efficace o che fossero tali da soddisfare le esigenze minime di un’indagine su un caso di omicidio manifesto, e ciò in quanto hanno lasciato troppe questioni cruciali senza risposta. Queste lacune appaiono ancora più gravi se si considera che il cadavere è stato in seguito consegnato ai ricorrenti e che è stata data autorizzazione per la sua cremazione, ciò che ha impedito qualsiasi ulteriore indagine, in particolare per quanto concerne il frammento metallico che si trovava nel corpo.
250. La Corte reputa increscioso che la procura abbia autorizzato la cremazione del cadavere il 23 luglio 2001, ben prima di conoscere i risultati dell’autopsia, e mentre la vigilia aveva concesso ai consulenti tecnici termine di 60 giorni per consegnare la loro relazione, tanto più che la stessa procura ha giudicato “superficiale” il rapporto d’autopsia. Che la mancata conservazione del corpo sia stato un ostacolo enorme per le indagini è peraltro confermato dai quattro consulenti tecnici d’ufficio, che non hanno potuto ricostruire i fatti e, conseguentemente, la traiettoria precisa dello sparo mortale non ha potuto essere determinata.
251. Tenuto conto delle lacune dell’esame medico-legale e della mancata conservazione del corpo, non è sorprendente che il procedimento penale si sia concluso con l’archiviazione. La Corte conclude che le autorità non hanno condotto un’adeguata indagine sulle circostanze del decesso di Carlo Giuliani.
252. In secondo luogo, la Corte osserva che le indagini a livello nazionale si sono limitate all’esame della responsabilità di F.C. e M.P. Per la Corte tale approccio non può essere considerato conforme alle esigenze dell’articolo 2 della Convenzione poiché le indagini dovevano essere approfondite, imparziali e rigorose e dovevano concernere tutte le circostanze che avevano accompagnato la morte.
In alcun momento è stata posta la questione di esaminare il contesto generale e verificare se le autorità avevano pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico in modo da evitare il tipo di incidente che ha causato il decesso di Carlo Giuliani. In particolare, le indagini non hanno avuto di mira la determinazione delle ragioni per le quali M.P. – che era stato giudicato incapace dai suoi superiori di continuare il suo servizio in ragione delle sue condizioni fisiche e psichiche- non fosse stato immediatamente condotto all’ospedale, fosse stato lasciato in possesso di una pistola carica e fosse stato messo a bordo di una jeep priva delle protezioni e ritrovatasi isolata rispetto al plotone che aveva seguito.
253. La Corte reputa che le indagini avrebbero dovuto concernere almeno questi aspetti dell’organizzazione e della gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico, poiché la Corte vede uno stretto legame tra lo sparo mortale e la situazione nella quale M.P. e F.C. si sono ritrovati. In altre parole, le indagini non sono state adeguate nella misura in cui non hanno ricercato quali fossero le persone responsabili di detta situazione.
254. Per quanto sopra detto, vi è stata violazione dell’art. 2 della Convenzione sotto l’aspetto procedurale.

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L'equiparazione tra Israele e il nazismo /2

Equiparare Israele al nazismo o i critici di Israele all’antisemitismo sono due atteggiamenti speculari, che alcuni partecipanti ai dibattiti sul conflitto mediorientale hanno sempre cura di rovesciarsi reciprocamente addosso.

Ho provato a spiegare ad un “equiparatore”, perchè secondo me sbaglia.

* * *

Se usi “nazismo” come sinonimo di malvagità, cattiveria, crudeltà, brutalità, puoi aver ragione. Allora, puoi dare del nazista a chiunque eserciti violenza e oppressione.

Se per nazismo intendi invece l’ideologia e la prassi del Terzo Reich, invece hai torto.

La differenza la fanno le camere a gas e i forni crematori.
La differenza la fa l’idea del capro espiatorio assoluto.

Gli israeliani si comportano molto male con i palestinesi.
Agiscono così perchè vogliono la loro terra.
Tuttavia, agiscono in vari modi, a volte con il bastone, a volte con la carota, e agiscono sempre per un motivo.
Se i palestinesi si arrendessero, se capitolassero, il conflitto sarebbe risolto. Se i palestinesi migrassero, nessun israeliano cercherebbe di fermarli o di infierire su di loro.

Gli ebrei invece qualunque cosa facessero – combattere, arrendersi, capitolare, migrare – dal punto di vista del Terzo Reich non avevano e non dovevano avere scampo.

Una madre entra nel campo con due figli piccoli.
Il militare nazista le domanda: “quale dei due vuoi che ti uccidiamo?”
Lei deve scegliere la morte di uno dei due figli, altrimenti verranno uccisi entrambi.

Questa cosa non ha nessun senso, nessuna equiparazione.

Per me, la banalizzazione del nazismo è di estrema gravità, fa parte di un mondo senza più memoria.

Riproduzione riservata

Dall’inizio di agosto, Il Sole 24 Ore e il Corriere della Sera pubblicano in loro articoli online con la dicitura in calce, a caratteri maiuscoli “riproduzione riservata”.
L’indicazione – spiegano dal quotidiano di Via Solferino – è frutto di una decisione congiunta della direzione e dell’azienda e punta a tutelare il diritto d’autore e ad arginare il fenomeno della ripresa abusiva dei pezzi.

Si tratta, più che altro, di un deterrente – viene precisato – nei confronti dei siti web, ma anche di piccole realtà della carta stampata che saccheggiano il Corriere senza citare la fonte.

Deterrente vecchio, a dir poco anacronistico. Penso sarebbe più efficace una dicitura in positivo, tipo: “è permessa la riproduzione dell’articolo, a condizione che sia citata la fonte“, salvaguardando in un colpo solo il diritto di citazione e il diritto d’autore, oppure, oltre a questa, altre opzioni: vedi Creative Commons.

D’altra parte, non si può escludere, che gli stessi giornalisti del Corriere e di molte altre testate, a loro volta copino dai blog, dalle agenzie, dai giornali stranieri, senza citare alcunché.

Secondo me, fermo restando l’obbligo di citare la fonte, le risorse di un sito dovrebbero essere a disposizione di tutti gli altri siti, purchè senza fini di lucro. La fonte citata, con tanto di link, può anche trarne vantaggio, aumentando i visitatori e migliorando il posizionamento nei motori di ricerca e accrescendo in ogni caso la propria reputazione.

In ogni caso, se proprio ci si vuol tutelare dalla possibilità di essere copiati e possibile inibire, con appositi codici html, i comandi “selezione”; “copia” e “stampa”. Un navigante esperto, può riuscire ad aggirarli – intanto anche per lui è una piccola seccatura – ma la maggior parte dei naviganti non saprebbe farlo e comunque preferirebbe lasciar perdere.

Eritrei, 73 morti dopo gli accordi con Gheddafi

Un barcone di profughi eritrei ha vagato nelle acque del Mediterrano per venti giorni. Settantatré persone sono morte. I superstiti hanno raccontato di aver incontrato varie imbarcazioni, senza ricevere soccorso.

Il governo italiano ha messo in dubbio la versione dei profughi, ha scaricato tutta la responsabilità sulle autorità maltesi e poi ha attaccato la UE di non fare niente e di lasciare sola l’Italia di fronte al dramma dei profughi.

Tuttavia, la tragedia è avvenuta nel quadro delle politiche di respingimento dei migranti. Si dichiara ogni volta di voler contrastare la tratta illegale degli esseri umani, si mettono verbalmente nel mirino gli scafisti, ma poi non si cambia nulla. Si conferma l’intenzione di respingere i migranti e l’accordo con la Libia di Gheddafi per impedire ai migranti di partire.

Ma la politica dei respingimenti ha portato gli scafisti ad abbandonare i migranti a se stessi in imbarcazioni sempre più piccole, magari stracariche di persone disperate in fuga dalla fame e dalla guerra, mentre l’unica politica che può stroncare la tratta è quella di permettere ai migranti di raggiungere le nostre coste con barche normali, le stesse che prenderemmo noi per raggiungere un paese del Maghreb.


Le politiche di contrasto dell’immigrazione sono ingiuste, illegittime, inutili e controproducenti, talvolta anche criminali, e possono finire in tragedia.

L’accordo con Gheddafi costa cinque miliardi di euro. Gli stessi soldi possono essere spesi meglio, per accogliere dignitosamente chi fugge da condizioni di vita disastrate. Sono tanti, ma non sono i numeri di una invasione. L’Italia ospita un decimo dei rifugiati della Germania e all’aumento degli sbarchi sulle coste siciliane è corrisposta una diminuzione complessiva degli sbarchi in Puglia e su tutte le altre coste italiane.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni, viaggio dalla morte all’Italia (Ezio Mauro)


ITALIA-LIBIA

Un Trattato per chiudere con i danni di guerra e fermare i barconi carichi di immigrati

Finora era stata un’estate insolitamente piatta sul fronte degli sbarchi di migranti. Dai primi di maggio, quando – con l’avvio dei respingimenti e dei pattugliamenti delle motovedette cedute all’Italia dalla Libia – è diventato operativo l’accordo siglato tra i due Italia e Libia nel dicembre del 2007, gli arrivi a Lampedusa si sono praticamente azzerati, fino alla ripresa degli ultimi giorni. I numeri del Viminale parlano di 7.567 arrivi nel 2009 (la quasi totalità avvenuta prima della metà di maggio) contro i 17.485 del 2008. A Lampedusa lo scorso anno sono sbarcati in 14.905, contro i 2.548 del 2009. Dati, sottolineano al ministero, che indicano il funzionamento degli accordi siglati con la Libia, nonostante la ripresa di giovedì. Proprio dal Paese nordafricano parte la grande maggioranza dei flussi diretti verso la Sicilia. L’accordo tra i due Paesi era stato siglato il 29 dicembre 2007 a Tripoli dall’allora ministro dell’Interno, Giuliano Amato e dal ministro degli Esteri libico, Abdurraham Mohamed Shalgam. Il piano, messo a punto dopo un lungo e riservato negoziato, non è però entrato nella fase operativa finché non è avvenuta – nello scorso febbraio – la ratifica parlamentare del Trattato di amicizia siglato dal premier Silvio Berlusconi e da Muhammar Gheddafi il 30 agosto 2008. Il programma contro le partenze di migranti è contenuto nell’articolo 19 del Trattato. Tra le novità più rilevanti del piano firmato da Amato, i pattugliamenti congiunti davanti alle coste del Paese nordafricano. Per questa attività l’Italia ha ceduto alla Libia sei unità navali della Guardia di finanza. Roma, prevede sempre l’accordo, darà una mano a Tripoli anche nel controllo degli sterminati confini meridionali della Libia, da dove premono masse di disperati in fuga dalle guerre e dalla povertà dell’Africa subsahariana. Sarà infatti Finmeccanica a fornire una rete di controllo satellitare per monitorare le frontiere di sabbia. L’Italia coprirà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% – indica il Trattato di amicizia – Roma e Tripoli chiederanno all’Ue di farsene carico.

il manifesto 22 agosto 2009

Piccole crociate anti islam

A Mantova, un comitato di agricoltori e sindacati ha disposto l’obbligo di bere ai braccianti musulmani durante il ramadam, che quest’anno inizia il 20 agosto. A Varallo Sesia, il sindaco ha vietato l’uso del burkini nelle piscine.

Sono due provvedimenti diversi. Uno vorrebbe tutelare la salute e la produttività dei lavoratori costretti molte ore sotto il sole, l’altro vorrebbe tutelare i bambini che si spaventano o i loro genitori. Ma, nella loro perentorietà, sono anche due provvedimenti simili. Si somigliano sottotraccia in un sentimento di ostilità all’islam, una delle principali religioni degli stranieri immigrati in Italia, in nome di una malintesa difesa del primato delle nostre leggi e dei nostri costumi. Un altro provvedimento della stessa serie è quello assunto in una cittadina del bergamasco, dove si vieta di cucinare il kebab in centro.

Un divieto che mette in crisi anche un certo fondamentalismo laico, quello che appoggia le misure anti-islam in nome della libertà dei singoli e vuole dissetare i braccianti vedendoli “costretti” a piegarsi al precetto religioso o svelare le donne vedendole “costrette” dal marito musulmano. Ne consegue, che i braccianti, ma soprattutto le donne arabe finiscono per trovarsi schiacciati tra l’incudine e il martello, tra l’obbligo di fare e l’obbligo di non fare, campo di battaglia di una crociata, di una guerra di civiltà in formato ridotto. Ma la difesa e l’affermazione delle libertà individuali può passare attraverso la contrapposizione di due autorità obbliganti?

Questione palestinese: o la sovranità o la cittadinanza

Spesso da parte israeliana si rappresenta la lotta palestinese come espressione di puro odio, fanatismo, indottrinamento, antisemitismo. Come fosse fuori contesto. Il contesto di un regime quarantennale di occupazione e di colonizzazione, di requisizione di terre e case, di costruzione di strade separate, di posti di blocco che impediscono la libertà di movimento, di distruzione degli ulivi, la principale fonte di reddito dei palestinesi, di limitazione delle libertà di movimento, di produzione, di commercio. Il contesto di un’apartheid di fatto.

Alla parola “apartheid” da parte israeliana si reagisce esibendo la condizione della propria minoranza araba che gode di pari diritti politici e civili nello stato ebraico: gli arabi in Israele vivono meglio degli arabi di qualsiasi stato arabo e mai vorrebbero emigrare in uno stato arabo. E – mi permetto di aggiungere – mai farebbero l’Intifada. Non ne avrebbero motivo, proprio perchè godono di pari diritti e stanno relativamente bene. Allora, anzichè ignorare questa differenza nelle condizioni giuridiche e materiali tra gli arabi di Israele e i loro fratelli di Gaza e Cisgiordania, e rappresentarsi questi ultimi come folli afflitti da un odio fine a se stesso, perchè non estendere i “pari diritti” degli arabi israeliani a tutti i palestinesi?

Israele occupa la Cisgiordania e anche Gaza come stato assediante. In questi territori vivono più di tre milioni di palestinesi. Per risolvere il conflitto, a questi palestinesi Israele dovrà concedere una cosa: o la sovranità o la cittadinanza.

Perchè sto dalla parte dei palestinesi

Nei forum politici i toni sono spesso concitati e alcuni si oppongono ad altri secondo il modulo della contrapposizione tra tifoserie fino a darsi del voi.
Darsi del voi è sbagliato, anche se comodo per abbreviazione e immediatezza comunicativa, finisce per favorire e rinforzare il senso di identificazione dell’altro.

Nella sezione mediorientale questo meccanismo è ancora più enfatizzato, per la valenza simbolica dell’argomento e perchè c’è una guerra in corso.

Una modalità di questa enfasi è data dall’uso molto disinvolto della proprietà transitiva: se tu pensi o dici questo allora stai dalla parte di quelli che massacrano i bambini oppure, viceversa, dalla parte di quelli che si fanno saltare in aria sugli autobus o lanciano razzi, anzi sei come loro. Oppure dall’accettazione pura e semplice della colpa collettiva: se agli israeliani (viceversa: ai palestinesi) succede questo è perchè se lo sono meritato, voluto, etc.

A parte le espressioni dirette di odio e di violenza, che vanno censurate, ogni opinione, presa di posizione, va considerata nei suoi presupposti di analisi e lettura del conflitto.

Una formula famosa dice che in Medio Oriente c’è un conflitto, non tra un torto e una ragione, ma tra due ragioni.

Esclusive o universali?

E’ vero, israeliani e palestinesi hanno entrambi diritto ad uno stato, alla sovranità, alla cittadinanza, alla sicurezza, etc… però in quel lembo di terra, c’è spazio per uno solo e, mi dispiace tanto, se devo proprio scegliere, scelgo questo popolo anzichè quello.

E’ lo schema del gioco a somma zero. Vita mia, morte tua.
Una visione del mondo tribale, lo assume molto facilmente.
Questo è un modo di essere di parte: la scelta di un diritto esclusivo.

E’ vero, israeliani e palestinesi hanno entrambi diritto ad uno stato, alla sovranità, alla cittadinanza, alla sicurezza, etc. e dato che si tratta di diritti universali, dato che gli uomini dei due popoli, prima di tutto sono uomini e come tali di pari valore e dignità, dato che un diritto non è un premio e la sua negazione non è una punizione ma una ingiustizia, quel diritto deve essere affermato senza condizione, senza che il diritto di uno sia subordinato all’altro, cercando la soluzione che permetta la conciliazione, il modo di convivere, entrambi come popoli e fra tutti come uomini.

E’ lo schema del gioco a somma diversa da zero.
Il diritto è universale e il diritto di uno è condizione e garanzia del diritto dell’altro.
E’ una visione del mondo illuministica.

L’assunzione di questo schema si manifesta in una posizione di equidistanza di fronte al conflitto?

Sul piano dei diritti astratti, si.
Sul piano dei diritti ancorati ai poteri, no.

Israeliani e palestinesi hanno gli stessi diritti, nella carta dei principi, ma non hanno gli stessi poteri nella carta dei rapporti materiali. I primi esercitano un dominio sui secondi.

Così, l’affermazione universale dei diritti implica necessariamente un riequilibrio dei poteri a favore della parte più debole, sottomessa, affinchè non sia più tale.

Per questa ragione, io sto dalla parte dei palestinesi.

(Metaforum, 9 gennaio 2009)

Gli immigrati delinquono più degli italiani?

Gli immigrati delinquono più degli italiani? Questa è una domanda sbagliata che induce a risposte sbagliate, o persino peggio: sono le risposte sbagliate a prodursi quella domanda, per potersi giustificare. Chi pone questa domanda dice di non farlo perchè mosso da pregiudizi razziali, in quanto la presunta correlazione tra immigrazione e criminalità la spiega in termini sociologici: gli immigrati sarebbero più poveri, più emarginati, più isolati, e quindi più esposti all’eventualità di commettere reati. Però poi, il problema così impostato va a parare nella proposta di soluzioni xenofobe indiscriminate: dato che gli immigrati sarebbero più esposti all’eventualità di commettere reati, per prevenzione è opportuno respingere ed espellere il maggior numero di immigrati possibile.
La domanda è sbagliata, non solo per la risposta che implica, ma anche per la rappresentazione generica generalizzante che propone. Gli immigrati sono un insieme molto grande ed eterogeneo. Ci sono molte comunità nazionali di provenienza. Ci sono i regolari, gli irregolari e i clandestini. E poi tutte le differenze per censo, cultura, lingua, religione, genere, professione, etc. A cosa può servirmi considerare gli immigrati in blocco, a parte impostare politiche xenofobe?

La domanda è del tutto arbitraria, così come sarebbe arbitrario domandarsi o considerare che i maschi delinquono più delle femmine, i giovani più degli adulti e degli anziani, i meridionali più dei settentrionali, i poveri più dei ricchi, i residenti in città più dei residenti in campagna. Nessuno si pone domande del genere, perchè nessuno ha in mente misure discriminatorie contro l’insieme più delinquente, nell’ambito del dualismo scelto.

Quei dualismi sono trasversali ad immigrati e italiani, ma in modo diverso, tale per cui il confronto non può risultare omogeneo. Tra gli italiani gli uomini e le donne sono cinquanta e cinquanta, i giovani sono un terzo (declinante) rispetto ad adulti ed anziani. Tra gli immigrati il rapporto è almeno inverso, prevalgono i giovani sugli anziani e gli uomini sulle donne, e in proporzione, gli abitanti nelle città. Se maschi, giovani e residenti in città delinquono di più in ogni società, l’insieme che contiene più maschi, più giovani e più residenti in città, risulterà più delinquente.

Ogni società giovane sarà più delinquente, perchè sarà più di ogni cosa. E’ probabile che gli immigrati rispetto agli italiani, facciano di più, in tutte le cose. Più impresa, più lavoro, più assistenza, più ricchezza, e forse anche più delinquenza. Rispetto alla quale, se primeggiano come autori, primeggiano anche come vittime.

Qualche mese fa, circolava il dato secondo cui, il 60% degli stupratori denunciati era italiano e il 40% era straniero. Si obiettava però che gli stranieri erano solo il 5% della popolazione. Vero. Ma anche il 30-40% delle stuprate era straniero e il 50-60% italiane. Dunque, se anche quella maggiore violenza esiste, si esercita non tanto sulla nostra pelle, quanto sulla loro. Tuttavia, il calcolo viene effettuato sugli stupri denunciati che sono soltanto un decimo degli stupri effettivi. Quali sarebbero le proporzioni considerando gli altri nove decimi? La verità è che non lo sappiamo. Stesso discorso vale per gli omicidi e per gli altri reati.

Il Giornale, 20 giugno 2007, scriveva:


Un omicidio su tre commesso da stranieri Su tre persone denunciate per omicidio, una è straniera. E, quasi sempre, è irregolare. La fotografia scattata dal rapporto è abbastanza nitida: la quota degli stranieri sul totale dei denunciati e degli arrestati per la gran parte dei reati, è decisamente più altra rispetto all’incidenza della popolazione straniera nel nostro paese: su 442 denunciati per omicidio, il 32% sono stranieri, mentre la popolazione immigrata non supera il 5% del totale. Ma, afferma il Viminale, “è importante sottolineare che la netta maggioranza dei reati viene commessa da stranieri irregolari, mentre quelli regolari hanno una delittuosità non molto dissimile alla popolazione italiana”. Lo dicono i numeri: il 74% degli stranieri denunciati per omicidio è irregolare; così come il 72% dei denunciati per tentato omicidio; il 62% per violenza carnale, il 63% per sfruttamento della prostituzione. Nel complesso, gli stranieri regolari denunciati nel 2006 sono stati quasi il 6% del totale dei denunciati, un numero che si avvicina di molto alla percentuale di immigrati rispetto alla popolazione residente (5%). Quanto alle nazionalità degli stranieri che commettono reati, anche in questo caso i paesi sono gli stessi che forniscono il maggior numero di irregolari: Albania, Marocco e Romania. I romeni sono i primi per gli omicidi, le violenze sessuali, le estorsioni, le rapine nelle abitazioni e i furti con destrezza. Gli albanesi primeggiano per i furti in abitazione mentre i marocchini per i tentati omicidi, le lesioni dolose e gli scippi.

Un omicidio su tre commesso da stranieri è una verità parziale, perchè riguarda solo gli omicidi di cui è stato accertato l’autore. Il 90% degli omicidi commessi dalla criminalità organizzata e il 30% degli omicidi commessi da altre forme di crimnalità si risolve con indagini dall’esito negativo e l’omicida resta sconosciuto.

Secondo, Marzio Barbagli, in tutte le storie di immigrazione, in America e in Europa, i contemporanei hanno avuto la percezione che gli immigrati fossero più delinquenti e portassero ad un aumento della criminalità. Poi però le inchieste ufficiali e gli studi definitivi sull’argomento smentivano questa tesi. E’ stata smentita anche la tesi secondo cui gli italiani in America erano più criminali dei nativi. Secondo Barbagli però questa tesi è vera rispetto all’immigrazione attuale in Europa a partire dalla metà degli anni ’70. Si potrebbe obiettare che siamo ancora agli studi intermedi, in itinere, come nelle storie precedenti, e non ancora agli studi definitivi. Tuttavia, Barbagli ritiene che la causa prima di questa condizione stia proprio nelle politiche di contrasto all’immigrazione, che renderebbero più difficile l’integrazione legale degli immigrati. Nella sua inchiesta su immigrazione e sicurezza (2008) Barbagli cita il dato dei romeni. Noi siamo erroneamente convinti che da quando i romeni sono potuti entrare liberamente in Italia, siano stati autori di un numero crescente di reati. Invece questo non è vero. I reati compiuti dai romeni sono cresciuti rapidamente negli anni precedenti, ma proprio nel 2007, nel momento in cui hanno smesso di essere clandestini, si sono stabilizzati.

Se aumenta l'immigrazione aumenta la criminalità?

La paura degli italiani di subire un reato, negli ultimi anni non è cresciuta, perchè non sono cresciuti i reati, anzi forse sono diminuiti. Questo dato statistico, mette in crisi l’assunto secondo cui esisterebbe una correlazione tra immigrazione e criminalità: all’aumento della popolazione immigrata, nel corso degli anni, non è corrisposto un aumento dei reati più gravi e sono invece dimuniti gli omicidi e le rapine che si concludono con un morto.
Lo spiega Pino Arlacchi in una sua intervista del 2007

Nel 1992 in Italia c’erano pochissimi stranieri: 648mila permessi di soggiorno, pari allo 0,6 per cento della popolazione. Francia e Germania avevano già una percentuale 10 volte superiore. Anche se raddoppiamo la cifra italiana per includere i clandestini, il numero degli immigrati era il più basso d’Europa. Nel 2004 gli immigrati in Italia erano diventati 2 milioni 200mila, pari al 3,9 per cento della popolazione. Un aumento del 550 per cento.

Abbiamo recuperato in soli 14 anni parte del gap con il resto dell’Europa. Restiamo sempre al di sotto del 5,6 per cento della Francia e dell’ 8,9 per cento di popolazione straniera della Germania, ma il cambiamento è stato enorme. Lo scossone alla società italiana dato da un ingresso così rapido di stranieri avrebbe potuto far saltare molti equilibri. Sarebbero potuti nascere grandi ghetti a ridosso delle maggiori città, e si sarebbe potuta verificare un’ esplosione di disagio e di criminalità giovanile, e di terrorismo pure.

La criminalità grave, quella violenta, che si esprime nel numero degli omicidi, o nelle rapine che finiscono con il morto, è diminuita regolarmente lungo tutto questo periodo e fino adesso. Per la precisione, gli omicidi si sono più che dimezzati tra il 1990 e il 2004: da 1773 sono passati a 714. E’ vero che sono diminuiti di più al Sud, dopo che sono finite le guerre di mafia, ma anche nelle regioni del Nord dove si sono concentrati gli immigrati sono molto decresciuti: da 135 in Lombardia nel 1990 a 91 nel 2004. Da 44 a 31 in Emilia Romagna, e così via. Nel Nord sono diminuiti meno perché partivano già da una base più ridotta. Le rapine cruente, quelle più feroci dove si spara e muore qualcuno, hanno provocato 118 morti nell’Italia del 1990, e solo 18 nel 2003. In Lombardia gli omicidi per rapina sono passati da 11 a 3. In Piemonte da 5 a 1. In Emilia Romagna da 6 a zero.

Nel resto dell’Europa la criminalità grave è pure diminuita. Il trend italiano è stato parte di un trend europeo che ha riguardato la gran parte dei reati. Sono aumentati solo quelli che possono essere connessi ad una attività criminale monopolizzata da stranieri, cioè il traffico degli esseri umani. I reati connessi allo sfruttamento della prostituzione e al trasporto e la schiavizzazione dei clandestini sono in effetti cresciuti notevolmente in questo periodo. Ma qui c’è il problema della domanda e dell’offerta. La criminalità straniera ha riempito un vuoto lasciato dalla malavita italiana, ed ha soddisfatto un offerta – quella di sesso o di lavoro a basso costo – che proveniva e proviene dalla società legale.

Tutti i reati connessi agli stupefacenti sono diminuiti in Italia dal 1991-92 in poi, passando da 40-42mila in quel biennio a poco più di 37mila nel 2003. Il bello è che questi reati sono decresciuti di più proprio nell’ Italia del Nord, dove sono affluiti la maggior parte degli immigrati. Questi ultimi, tra l’altro, non sono mai riusciti a dominare veramente il mercato illecito più lucroso, perché tra i due terzi e la metà delle denunce per reati di droga eseguite dalle forze dell’ordine continuano a riguardare cittadini italiani.

Circa un terzo dei detenuti sono stranieri. Ma ciò dipende dalla loro vulnerabilità all’azione della polizia ed alle disposizioni che li escludono dalle misure alternative alla detenzione, come l’affidamento ai servizi sociali o gli arresti domiciliari. Questo accade perché, spesso, non hanno un domicilio stabile in cui attendere il giudizio o una famiglia che possa ospitarli, e quindi il carcere rimane l’unica alternativa. La maggior parte degli stranieri che compaiono nelle statistiche hanno commesso reati connessi all’immigrazione clandestina, quali il rifiuto di fornire le proprie generalità, il falso, ecc. E sono stati, inoltre contati più volte dalle nostre statistiche poco accurate. Molti di loro sono semplicemente dei clandestini e non dei criminali. Ci sono anche i delinquenti che spacciano, rubano e schiavizzano, ovviamente, ma non c’è l’equazione tra clandestino e criminale.

Pino Arlacchi, Rosso di Sera 21 maggio 2007