Maria Elisabetta Alberti Casellati prima donna presidente del senato

Maria Elisabetta Alberti Casellati

Maria Elisabetta Alberti Casellati è la nuova presidente del senato. La prima donna della repubblica italiana a ricoprire la seconda carica dello stato. Ci si domanda se questa sia una buona notizia, poiché la donna in questione è una berlusconiana, favorevole alle leggi ad personam, difensora del suo capo sul caso Ruby, cattolica contraria alle unioni civili, privilegiata della casta che ha assunto la figlia al ministero della sanità, con un mega stipendio, una donna degli uomini cooptata dagli uomini.

Secondo me, è una buona notizia che i vertici istituzionali non siano più preclusi alle donne, che l’elezione di una donna non sia più un’eccezione, una parentesi, ma diventi un fatto normale, che si ripete e dura nel tempo. Poi, le donne, metà del genere umano, sono tante e diverse: di destra, di sinistra, laiche, cattoliche, coerenti, opportuniste, indipendenti, subalterne. Come gli uomini e a modo loro. Non c’è motivo di pretendere da una donna presidente un supplemento di legittimità, senza il quale la sua nomina non varrebbe niente o sarebbe addirittura un danno.

Il profilo della neoeletta non contraddice il pregiudizio, al quale aderisco, secondo cui le donne sono meglio degli uomini. Lo sono a parità di condizioni, dunque meglio una berlusconiana di un berlusconiano. Il pregiudizio ha la sua ragione d’essere, perché un ambiente abitato dai due sessi è migliore di un ambiente omosociale, comprenso l’ambiente istituzionale, e perché più donne al potere può voler dire più relazioni tra donne, dunque un ulteriore declino delle cooptanti strutture patriarcali e una minor influenza dei leader maschi, compreso il cavaliere che voleva eleggere Paolo Romani.

Nel suo discorso di insediamento, la neopresidente ha dichiarato un onore essere la prima donna presidente e ha reso omaggio alle donne, al Risorgimento e alla lotta di Liberazione. Ha citato come rappresentante magistrale la senatrice Liliana Segre. Non era scontato, da parte di una esponente della destra. Alcuni svilenti commenti da sinistra a lei ostili, invece, sono fin troppo scontati ed è un peccato non si riesca ancora ad evitarli.

Il papa «abolizionista» lotta nella Chiesa

Ragazza nigeriana - Sinodo giovani della Chiesa cattolica

Papa Francesco, nella riunione pre-sinodale dei giovani, ha condannato lo sfruttamento delle donne prostituite: la prostituzione è schiavitù; i clienti sono criminali, che torturano le donne; la tratta è un delitto contro l’umanità. Nessuno dei suoi predecessori, i cardinali, i vescovi, come nessuno dei leader politici o altro uomo pubblico, si è mai espresso con parole così semplici e nette per definire una realtà tanto evidente quanto sottaciuta. Il papa ha messo al centro la domanda maschile e parlato agli uomini, senza nulla rimproverare alle donne, secondo la filosofia delle legislazioni abolizioniste quali la Legge Merlin. Perciò, la presa di posizione di Jorge Mario Bergoglio ha un valore politico e simbolico potente e riceve molto consenso.

Riceve anche qualche critica. Per esempio, quella di Mariangela Mianiti, che rimprovera Francesco per la frase infelice, secondo la quale nessun femminismo è riuscito a togliere dalla coscienza maschile quella mentalità malata che porta a sfruttare le donne. Secondo lei, non è il femminismo che deve curare la mentalità degli uomini, ma sono gli uomini che si devono interrogare sulla loro miseria sessuale: sono stati gli uomini ad aver introdotto e incrementato la prostituzione. Per parte mia, preferisco interpretare la frase del papa come una denuncia dell’impermeabilità maschile al femminismo il quale, tuttavia, la mentalità del capo della Chiesa, è riuscito a cambiarla. La domanda di Mariangela Mianiti rimane: perché gli uomini non si fanno un esame di coscienza, perché hanno bisogno di comprare sesso?

Alcuni tra questi uomini preferiscono giocare la carta del diversivo ed accusare il papa di incoerenza e ipocrisia, perché mentre condanna lo sfruttamento della prostituzione, coprirebbe i preti pedofili, più qualsiasi altro misfatto possa essere messo in carico alla storia della Chiesa. Stando alle dichiarazioni e iniziative più recenti di questo papa, la contestazione è falsa e costituisce, inoltre, una vecchia fallacia logica, l’argumentum ad hominem, un artificio retorico volto ad attaccare, non l’affermazione dell’interlocutore, ma l’interlocutore stesso.

Immancabile poi chi si nasconde dietro la prostituta volontaria, per sentirsi da lei stessa autorizzato ad abusarne. Ma questo non impedisce di parlare agli uomini, perché è falso che la disponibilità di alcune a farsi fare del male, a sopportare il contatto con un corpo indesiderato, autorizzi altri a fare del male, ad approfittare di quella disponibilità, per infliggere il proprio schifo. L’80% delle ragazze in strada avvicinate dalla comunità Papa Giovanni XXIII desiderano essere liberate.

Un diversivo analogo è giocato da coloro che, pur da una posizione contraria allo sfruttamento della prostituzione, scelgono di dare la precedenza all’anticlericalismo e rifiutano il papa come alleato. Per me, la questione sta in questi termini: non sono cattolico, ma considero la religione cattolica compatibile, ed in parte coincidente, con i miei valori: l’universalismo, l’uguaglianza, la fratellanza. La Chiesa su alcuni argomenti ha ragione, su altri ha torto: in modo laico, posso riconoscere l’una o l’altro. Inoltre, spero che la Chiesa cambi ed evolva e faccio il tifo perché in essa si affermi l’orientamento migliore.

Papa Francesco incarna questo orientamento. Gli anticlericali si atteggiano nei suoi confronti come un tempo gli anticomunisti nei confronti di Gorbaciov. Reputano insufficiente, tardiva e falsa ogni sua mossa, gli rinfacciano di non aver ancora affrontato e risolto tutto il male presente e pregresso della sua organizzazione, a dimostrazione del fatto che rimane quello che è: l’unico cambiamento autentico e riconoscibile sarebbe l’abiura e la conversione. Dunque, una posizione di totale chiusura, che non vede le differenze e i conflitti.

Il conflitto femminista esiste anche tra i cattolici. Il papa non si è chiamato fuori dal fenomeno che ha denunciato, non ha parlato ad altri, alla società laica, atea e secolarizzata. Si è rivolto ai suoi giovani ed ha evidenziato come il 90% dei clienti sia battezzato cattolico. «Io voglio approfittare di questo momento per chiedere perdono a voi e alla società, per tutti i cattolici che fanno questo atto criminale». Ha parlato dello sfruttamento delle donne come questione interna alla comunità dei fedeli. Così, intendo le sue parole come un atto di lotta nella Chiesa.

Se il PD può governare con il M5S

M5S-PD

La concreta possibilità che il PD rifiuti di partecipare ad un governo con il M5S è accettabile e può pure meritare consenso. Lo spirito, i moventi, gli argomenti con i quali il PD supporta tale possibilità, anzi la dà per certa e voluta, invece lasciano perplessi. Uno spirito di rivalsa affidato al desiderio del fallimento del primo partito uscito dalle urne, in modo che gli elettori ne siano delusi e tornino a votare PD. Che un tale fallimento possa essere dannoso per il paese, i più poveri, la democrazia e provocare alternative peggiori, sembra non sfiorare i dirigenti democratici.

Il PD ha fatto una campagna elettorale per chiedere il voto utile contro Salvini e Di Maio. Ora che i suoi seggi possono essere utili, per evitare una saldatura populista, il PD invita Lega e M5S ad allearsi, capovolgendo la logica politica, secondo la quale si opera per dividere gli avversari, non per metterli insieme. Lo schema uno contro tutti può funzionare per introdurre un movimento emergente, non per restituire verginità ad un partito tradizionale, come ha già mostrato l’esito del referendum costituzionale.

I suoi leader affermano che il PD sarebbe stato messo all’opposizione dagli elettori. Una simile lettura avrebbe senso in uno schema bipolare, dove il sistema elettorale assegna una maggioranza e una minoranza coincidenti con il governo e l’opposizione. Ma in uno schema tripolare o multipolare, dove il sistema elettorale assegna a tutti una diversa quota di minoranza, governo e opposizione non sono predeterminati dal risultato, salvo il miracolo realizzato da nessuno di raggiungere la percentuale di voti che assegna la maggioranza assoluta dei seggi.

Ancora, secondo i leader PD, l’alleanza con i 5 stelle sarebbe contro natura. Eppure, il PD è reduce da alleanze con Berlusconi, Alfano, Verdini ed ha candidato Pierferdinando Casini nel collegio uninominale di Bologna. Dunque, cosa c’entra la natura? Le alleanze innaturali, nelle situazioni di crisi, sono una possibilità della politica, in funzione di interessi ed obiettivi condivisi o mediati. Si può capire il risentimento per una propaganda violenta, offensiva, volgare, talvolta ricambiata. Ma la violenza verbale, peraltro ricorrente anche nei talk-show della cosiddetta seconda repubblica, è in parte un teatro, in parte un linguaggio che concepisce il confronto politico come un gioco a somma zero. Una concezione assecondata e rinforzata dalle logiche di rappresaglia.

Allora, il PD deve fare un governo con il M5S? Non è detto. Dovrebbe provarci, se riceve un’offerta dal partito di maggioranza relativa, avviare una trattativa su composizione del governo, programma, modi e tempi di attuazione, e su questa base decidere per il si o per il no. Un confronto si può reggere con chiunque, se si sa cosa si vuole e non si ha paura di essere messi in contraddizione. Qui è il guaio. A fare da ostacolo ad un accordo con il M5S non sembrano essere argomenti di destra, come la xenofobia, già anticipata dalle politiche di Minniti, ma gli argomenti di sinistra, quali le misure di protezione sociale, che il PD sembra vedere solo come effetto di crescita e sviluppo, per impulso dell’iniziativa privata agevolata dallo stato, secondo la visione tipica di un partito liberale.

Sul tracollo della «sinistra»

Trend elettorale 2013-2018 del PD

La sconfitta della sinistra è stata annunciata da varie tornate amministrative, dall’esito del referendum costituzionale e da molti sondaggi. Una sconfitta prevedibile da tempo. L’annuncio era verosimile: il partito al governo avrebbe pagato il conto della crisi economica, nonché l’identificazione con il cosiddetto establishment, punito in tutto l’Occidente dall’ascesa di movimenti populisti, fino alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ci si aspettava che lo stesso vento elettorale arrivasse in Italia. Ed è arrivato.

Inaspettate invece sono state le proporzioni della sconfitta. Trump negli Stati Uniti, vinse per un soffio e solo nell’assegnazione dei grandi elettori. In Italia, per quanto il PD abbia creduto o voluto far credere di essere competitivo per il primato dei voti o almeno dei seggi assegnati, il suo risultato è finito sotto la soglia psicologica del 20%; il dato più negativo per la sinistra dal dopoguerra o addirittura da prima della Grande guerra, il 1913. Cosa ha provocato una sconfitta in simili proporzioni? Non lo sappiamo, ma possiamo fare il punto sulle congetture.

Un elemento che può aver forzato in negativo il dato del PD è la logica utilitaria, derivante dal sistema maggioritario e dall’idea di eleggere il governo e non il parlamento, poiché la rappresentanza e l’opposizione non conterebbero nulla. L’elettorato del PD è stato a lungo educato alla logica del voto utile. L’eccezionale appello di Indro Montanelli (Turatevi il naso, ma votate DC), è stato elevato a regola permanente, tanto da essere esplicitamente citato da Matteo Renzi, per chiedere il voto ai suoi candidati. Una citazione paradossale. Indro Montanelli era un giornalista liberale di destra che chiedeva il voto per la DC, al fine di arginare il PCI, nel quadro del bipartitismo imperfetto degli anni ‘70. I dirigenti democristiani, pur apprezzando l’appello, non l’avrebbero mai fatto proprio, per l’evidente effetto autodenigratorio.

I dirigenti e attivisti del PD invece sono stati montanelliani in prima persona. E lo sono stati soprattutto a guardia del possibile esodo elettorale verso Liberi e Uguali, senza vigilare sulle altre possibili destinazioni, incentivate proprio dall’indicazione di turarsi il naso e votare il meno peggio, come si farebbe nel riorientare la propria scelta in un secondo turno elettorale: dati tre poli, se uno è perdente in partenza (il centrosinistra), non rimane che scegliere tra i due possibili vincenti (centrodestra e M5S). Una parte dell’elettorato PD, specie al sud, deve aver ragionato così, anche in forza del profilo incolore dei perdenti rispetto ai vincenti. Dunque, una scelta, riguardo il PD, più derubricante che punitiva.

Flussi elettorali del PD dal 2013

Tuttavia, l’elemento punitivo non è mancato. Come vediamo in questi giorni, il centrodestra con il 37% e il M5S con il 32%, da soli, non hanno i numeri per formare un governo. Nel 2013, grazie ad un premio di maggioranza spropositato (poi dichiarato inconstituzionale) alla Camera e d’accordo con Berlusconi (poi con Alfano e Verdini) al Senato, il PD ha sempre potuto formare un governo: maggioritario in parlamento, ma minoritario nel paese. Un governo consapevole di essere minoritario si muove con cautela e cerca la condivisione.

Il PD di Matteo Renzi, invece, si è comportato come se fosse stato davvero un partito del 40%, con il popolo con sé, contro tutti gli altri: i corpi intermedi, la vecchia guardia, i gufi, i rosiconi, etc. Ha fatto riforme importanti e antisociali, come quelle sul lavoro e sulla scuola, e le ha imposte con il voto di fiducia; ha tentato persino di riformare a fondo la Costituzione ed ha trattato i suoi avversari con irrisione ed arroganza. Un’espressione di questo atteggiamento fu il tweet provocatorio del deputato PD Ernesto Carboni che, ad urne ancora aperte, salutava con un «ciaone» i sostenitori del referendum sulle trivelle, avviato a mancare il quorum. Con questo atteggiamento, il PD renziano è andato incontro alla legge del contrappasso.

All’elemento punitivo si associa l’elemento sociale nei confronti dell’ex partito del lavoro divenuto il partito garante del rispetto dei trattati economico finanziari dell’Unione europea. Lo storico marxista Giorgio Candeloro sosteneva che la borghesia fosse veloce a cambiare cavallo, cioé partito di riferimento, se e quando le conveniva, mentre le classi subalterne, per fare lo stesso, potevano impiegavano decenni. Questo cambiamento che non è mai avvenuto a vantaggio della sinistra radicale, forse sta avvenendo a vantaggio del M5S. Lo vediamo nella geografia del voto delle grandi città, con il PD, partito delle élite, assediato nei centri cittadini e nei quartieri bene dalle periferie pentastellate. Non penso che il dato sociologico sia sufficiente per qualificare il M5S come nuovo partito di sinistra, poiché sempre a detta dello storico, è il programma che fa il partito di classe, ma esiste una potenzialità: alcuni punti di programma ci sono, come il reddito di cittadinanza e la reintroduzione dell’art. 18, e molti ex elettori di sinistra la pensano così: che il M5S sia il nuovo partito dei più deboli.

Infine, c’è l’esaurimento del renzismo. Fatto tutto quel che ha fatto, dopo il 4 dicembre 2016, perso il referendum costituzionale, Matteo Renzi e il suo gruppo non hanno più avuto nulla da proporre. Ora, i suoi sostenitori chiedono di non farne un capro espiatorio, di non addossare a lui responsabilità che hanno dimensioni storiche e globali. In parte, essi hanno ragione; in parte, devono però ammettere che se Renzi poteva essere glorificato per l’effimero dato elettorale europeo del 41%, qualcosa adesso tocca addebitargli per il ben più pesante 18% delle elezioni politiche. A lui, ai suoi collaboratori e sostenitori.

Variazioni elettorali del PD

Al tracollo della sinistra hanno partecipato Liberi e Uguali e Potere al popolo. I primi, hanno mancato un risultato di rilievo nazionale, almeno il 5-6%, i secondi sono rimasti molto al di sotto della soglia di sbarramento. I due insuccessi mostrano che una non è la soluzione ai problemi dell’altra. Nella sinistra alternativa si può essere in continuità o in discontinuità, responsabili o radicali, moderati od estremisti, sobri o brilli, si perde lo stesso. Le spiegazioni tipo «Siamo appena nati», «Non ci hanno dato spazio», «Gli altri non hanno fatto un passo indietro», etc. oltre ad essere omissive, sono vittimistiche ed infantili, specie al tempo dei social media, dove si può esistere ed apparire anche senza essere invitati ai talk-show. L’unico momento in cui Liberi e Uguali ha determinato il dibattito politico è stato quando ha proposto l’abolizione delle tasse universitarie. Di Potere al popolo ci si è accorti solo per la proposta di abolire il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Poi è certo vero che la logica maggioritaria e governativa e le sue leggi elettorali sono molto svantaggiose per le minoranze, specie se fuori dalle coalizioni, anche se quelle dentro non hanno certo fatto meglio, tuttavia questo non dipende da noi.

Per quale motivo si può scegliere di votare una minoranza? Perché evoca un passato di cui si ha molta nostalgia; perché evoca un futuro per il quale si ha una grande aspettativa; perché candida personalità molto attraenti. Liberi e Uguali ha evocato la nostalgia dell’Ulivo, dei Ds, del PD originario, ma è stata smentita da Prodi e Veltroni, più evocativi di D’Alema e Bersani, rispetto a quella esperienza che, in verità, al di fuori di un segmento simpatizzante, non è ricordata con grandi rimpianti, come invece accade per il PCI di Enrico Berlinguer. In più, Liberi e Uguali, nel rievocare l’Ulivo si è trovata in contraddizione con la sua collocazione e le sue dimensioni, nell’occupare lo spazio politico che fu di Rifondazione comunista.

Sulle elezioni politiche 2018

Risultati elezioni politiche 2018

E’ sempre un azzardo, per me, tentare di individuare e valutare l’elemento nuovo di una situazione, la novità che fa da spartiacque tra due periodi, chiude una storia e ne apre un’altra. Capita di indicarne uno, ma poi si rivela una meteora, tipo la rapida parabola di un leader. Capita di indicarne un altro, ma era già stato indicato la volta precedente, magari più volte, per esempio, la fine della seconda repubblica: fu la lettura delle elezioni del 2013, poiché il bipolarismo fondato sull’alternanza tra centrodestra e centrosinistra veniva rotto dal M5S, terza forza emergente ed equivalente.

I dati nuovi

Le novità delle elezioni 2018 stanno nel mutamento dei rapporti di forza tra i tre poli. Il centrosinistra, che era primo nel 2013, con 10.049.393 voti (29,55%), diventa terzo nel 2018 con 7 milioni e mezzo di voti (22,9%). Il centrodestra, che era secondo nel 2013 con 9.923.600 voti (29,18%), diventa primo nel 2018 con 12 milioni e centomila voti (37%). Il Movimento cinque stelle, che era terzo nel 2013 con 8.691.406 voti (25,56%), diventa secondo nel 2018 con 10 milioni e 700 mila voti (32,7%).

Se si guarda ai singoli partiti, si rimane impressionati: dal primato del M5S, che supera di slancio la soglia del 30 per cento; dal primato della Lega nel centrodestra, che passa dal 4 al 17 per cento; e dal crollo del PD, che scende sotto la soglia del 20 per cento. Il cosiddetto populismo – Lega (17,4%) e M5S (32,7%) – copre metà dell’elettorato e forse ha la maggioranza, ma è diviso tra due collocazioni politiche, una di destra, l’altro ambidestro e due collocazioni territoriali, una al nord, l’altro al sud. Forza Italia, scendendo dal 21,5 del 2013 in formato PDL al 14% del 2018, sembra definitivamente ridimensionata, anche per i limiti del suo leader e creatore. Il PD, cadendo dal 25,4% delle politiche 2013 e dal 41% delle Europee 2014 al 18,7% delle politiche 2018 paventa il rischio di ridursi come i socialisti francesi o greci, ma per adesso ottiene ancora una percentuale a due cifre, poco sopra quella desiderata da Liberi e Uguali.

Le costanti

Più agevole vedere le tendenze che dagli anni ‘90 e 2000, rimangono costanti, anche se più accentuate: il governo uscente perde le elezioni; la sinistra al governo diventa un partito liberale e il suo liberismo temperato è bocciato nelle urne, punito a sinistra, senza essere premiato a destra; la sinistra alternativa non intercetta la perdita di consensi della sinistra di governo; le sinistre vincono o perdono insieme; la divisione a sinistra annuncia la sconfitta come sintomo più che provocarla come causa.

Uno schema si ripete nella sinistra alternativa (la mia area di appartenenza): un istituto demoscopico ipotizza un potenziale elettorale intorno al 12-15%. I sondaggi oscillano tra il 6 e l’8%. Le urne mostrano una percentuale intorno alla soglia di sbarramento. Successe con la Sinistra arcobaleno nel 2008 e con la Lista Tsipras nelle europee del 2014, ma pure con le europee del 2009, con Rifondazione comunista e Sel divise, entrambe al 3 per cento o nel 2013 con una divisione simile tra Sel e Rivoluzione civile. Un’altra costante è la frammentazione della sinistra alternativa, che toglie credibilità a ciascuna sua componente. Va ricordato che, nel suo periodo migliore, gli anni ’90, Rifondazione comunista ottenne il suo massimo nel 1996 con l’8,5% e il suo minimo nel 1999, con il 4,3%.

Un copione che si ripete dopo il voto è la retorica del neonato, che rappresenta le sue ridotte dimensioni come punto di partenza. La usò persino Veltroni nel 2008, poiché pareva poco il 30% per il PD che unificava DS e Margherita. La usò Vendola per dire del 3% di Sel nel 2009. Oggi la usa Potere al popolo e qualcuno l’accenna in Liberi e Uguali. Un altra costante rischia di essere la smobilitazione dei cartelli elettorali e il ritorno alle frazioni che li componevano: Liberi e Uguali (Articolo Uno Mdp; Sinistra italiana, Possibile); Potere al Popolo (Rifondazione comunista, ex Pdci, Sinistra anticapitalista).

Il risultato di Liberi e Uguali

Il risultato deludente di Liberi e Uguali, che riconferma il dato di Sel del 2013 e, ad ogni modo, riesce ad entrare in parlamento, fa venire in mente pensieri facili: sono apparsi troppo prossimi al governo e al PD, perché Articolo Uno Mdp, in effetti, proviene dal PD ed ha atteso molto prima di uscirne, senza peraltro rompere su una chiara battaglia di contenuto sociale; poi ha atteso molto a promuovere la sua coalizione in attesa di un leader, già sindaco di Milano, a sua volta indeciso se allearsi con il PD. Nel frattempo il richiamo ha continuato ad evocare il vecchio Ulivo o un nuovo centrosinistra.

Formata la coalizione, si è data come come candidato premier, in modo improvvisato e verticistico, il presidente del senato ed ha trovato come ulteriore esponente di punta la presidente della camera, entrambi attaccati dagli avversari come fossero ministri in carica, in un contesto diffuso nel quale tanta parte dell’opinione pubblica confonde i ruoli istituzionali con quelli di governo. Salvo la proposta di abolire le tasse universitarie, Liberi e Uguali non è riuscita a qualificare la sua campagna elettorale con un messaggio chiaro e proposte incisive, mentre ha guadagnato attenzione con ipotesi e formule di governo: il governo del presidente, il governo di scopo, l’eventuale alleanza con il M5S.

Inoltre, Liberi e Uguali non si è fatto mancare di irritare le femministe con una denominazione maschile inclusiva, la gaffe delle foglioline sia pure indotta da un giornalista, alcune foto e alcune presenze esclusivamente maschili nelle conferenze stampa, compresa l’ultima post-elettorale. Laura Boldrini si è imposta di fatto, ma la sua lista non ha mostrato di valorizzarla: non ha puntato su di lei come candidata premier, neppure ha formalizzato un ticket con il candidato premier; né le ha mai dato spazio sul sito ufficiale, quasi tutto coperto dal candidato premier e dai tre segretari.

Tuttavia, non saprei misurare se, come e quanto questi aspetti abbiano davvero pesato sul dato di Liberi e Uguali. Temo che, se pure avessero fatto una campagna elettorale perfetta e tutte le scelte giuste, l’esito non sarebbe stato sostanzialmente diverso, perché la corrente contraria è troppo forte e la lista che ha provato a strizzare l’occhio al populismo, a presentarsi dura, pura e incontaminata, guidata da una donna, ha preso l’1,1 per cento. L’ondata populista, il tracollo del Partito democratico, la torsione maggioritaria che porta gli indecisi al cosiddetto voto utile, in questa fase forse non erano in alcun modo arginabili.

Liberi e Uguali. Il voto classico di sinistra

Laura Boldrini - Vota Liberi e Uguali

Mi chiede: «E tu per chi voti?». Rispondo: «Liberi e Uguali». Lei: «Va bene, ma come lo motivi politicamente?» Io: «C’è Laura Boldrini». Lei: faccia ironica e rassegnata. Se piace una persona, cosa si può obiettare? D’altra parte, basta una persona per scegliere un partito? Nella nostra cultura di sinistra, no. Si sceglie per una visione del mondo, un progetto, un programma, un soggetto collettivo, come fa il manifesto degli intellettuali. Per parte mia, aderisco a questa cultura non personalistica, ma capita ci sia una persona, per milioni o per alcuni, per quelli che la sostengono e per quelli che l’attaccano, più capace di altre di essere una bandiera.

Per me, Laura Boldrini corrisponde ai contenuti, ai valori, che lei stessa ha nominato nella chiusura della sua campagna elettorale a Milano, per delineare la fisionomia del nuovo partito che Liberi e Uguali può diventare: il laburismo, l’europeismo, l’ambientalismo, la solidarietà, il femminismo. Quest’ultimo citato con più enfasi. Poi, c’è un magnetismo che è difficile mettere in parole. Ha la sua importanza, per me, il fatto che lei sia una donna e altre con lei, come Anna Falcone e Rossella Muroni. Che a favore di questa lista ci siano Maria Luisa Boccia, Rossana Rossanda, Luciana Castellina. Perché da tempo dò più credito alle leadership femminili.

Detto da osservatore esterno, un po’ tutto il personale politico di Liberi e Uguali è abbastanza di mio gradimento. Nell’insieme i candidati più noti, li vedo come persone competenti, presentabili, rispettabili, a tratti persino un po’ ingenue, non mediatiche, non demagogiche, che non fanno gli strilloni, non cercano di piacerti, non ti dicono «Sono uno di voi». Parlano alla testa, si affidano al ragionamento, al discorso strutturato. Non mostrano ostilità nei confronti degli avversari. Chiedono un voto per sé, non contro altri.

Nel complesso Liberi e Uguali mi appare come una formazione di sinistra equilibrata. Né convertita, né identitaria, ma unitaria. Né moderata, né estremista, ma socialista. Né squadra, né popolo, ma partito. Un partito di sinistra in senso classico, plurale e potenzialmente grande, quello che si dà per programma l’attuazione della Costituzione. In tempo di crisi e confusione, di moderno medio evo, il ritorno al classico mi pare la scelta più saggia.