La sconfitta della sinistra è stata annunciata da varie tornate amministrative, dall’esito del referendum costituzionale e da molti sondaggi. Una sconfitta prevedibile da tempo. L’annuncio era verosimile: il partito al governo avrebbe pagato il conto della crisi economica, nonché l’identificazione con il cosiddetto establishment, punito in tutto l’Occidente dall’ascesa di movimenti populisti, fino alla vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti. Ci si aspettava che lo stesso vento elettorale arrivasse in Italia. Ed è arrivato.
Inaspettate invece sono state le proporzioni della sconfitta. Trump negli Stati Uniti, vinse per un soffio e solo nell’assegnazione dei grandi elettori. In Italia, per quanto il PD abbia creduto o voluto far credere di essere competitivo per il primato dei voti o almeno dei seggi assegnati, il suo risultato è finito sotto la soglia psicologica del 20%; il dato più negativo per la sinistra dal dopoguerra o addirittura da prima della Grande guerra, il 1913. Cosa ha provocato una sconfitta in simili proporzioni? Non lo sappiamo, ma possiamo fare il punto sulle congetture.
Un elemento che può aver forzato in negativo il dato del PD è la logica utilitaria, derivante dal sistema maggioritario e dall’idea di eleggere il governo e non il parlamento, poiché la rappresentanza e l’opposizione non conterebbero nulla. L’elettorato del PD è stato a lungo educato alla logica del voto utile. L’eccezionale appello di Indro Montanelli (Turatevi il naso, ma votate DC), è stato elevato a regola permanente, tanto da essere esplicitamente citato da Matteo Renzi, per chiedere il voto ai suoi candidati. Una citazione paradossale. Indro Montanelli era un giornalista liberale di destra che chiedeva il voto per la DC, al fine di arginare il PCI, nel quadro del bipartitismo imperfetto degli anni ‘70. I dirigenti democristiani, pur apprezzando l’appello, non l’avrebbero mai fatto proprio, per l’evidente effetto autodenigratorio.
I dirigenti e attivisti del PD invece sono stati montanelliani in prima persona. E lo sono stati soprattutto a guardia del possibile esodo elettorale verso Liberi e Uguali, senza vigilare sulle altre possibili destinazioni, incentivate proprio dall’indicazione di turarsi il naso e votare il meno peggio, come si farebbe nel riorientare la propria scelta in un secondo turno elettorale: dati tre poli, se uno è perdente in partenza (il centrosinistra), non rimane che scegliere tra i due possibili vincenti (centrodestra e M5S). Una parte dell’elettorato PD, specie al sud, deve aver ragionato così, anche in forza del profilo incolore dei perdenti rispetto ai vincenti. Dunque, una scelta, riguardo il PD, più derubricante che punitiva.
Tuttavia, l’elemento punitivo non è mancato. Come vediamo in questi giorni, il centrodestra con il 37% e il M5S con il 32%, da soli, non hanno i numeri per formare un governo. Nel 2013, grazie ad un premio di maggioranza spropositato (poi dichiarato inconstituzionale) alla Camera e d’accordo con Berlusconi (poi con Alfano e Verdini) al Senato, il PD ha sempre potuto formare un governo: maggioritario in parlamento, ma minoritario nel paese. Un governo consapevole di essere minoritario si muove con cautela e cerca la condivisione.
Il PD di Matteo Renzi, invece, si è comportato come se fosse stato davvero un partito del 40%, con il popolo con sé, contro tutti gli altri: i corpi intermedi, la vecchia guardia, i gufi, i rosiconi, etc. Ha fatto riforme importanti e antisociali, come quelle sul lavoro e sulla scuola, e le ha imposte con il voto di fiducia; ha tentato persino di riformare a fondo la Costituzione ed ha trattato i suoi avversari con irrisione ed arroganza. Un’espressione di questo atteggiamento fu il tweet provocatorio del deputato PD Ernesto Carboni che, ad urne ancora aperte, salutava con un «ciaone» i sostenitori del referendum sulle trivelle, avviato a mancare il quorum. Con questo atteggiamento, il PD renziano è andato incontro alla legge del contrappasso.
All’elemento punitivo si associa l’elemento sociale nei confronti dell’ex partito del lavoro divenuto il partito garante del rispetto dei trattati economico finanziari dell’Unione europea. Lo storico marxista Giorgio Candeloro sosteneva che la borghesia fosse veloce a cambiare cavallo, cioé partito di riferimento, se e quando le conveniva, mentre le classi subalterne, per fare lo stesso, potevano impiegavano decenni. Questo cambiamento che non è mai avvenuto a vantaggio della sinistra radicale, forse sta avvenendo a vantaggio del M5S. Lo vediamo nella geografia del voto delle grandi città, con il PD, partito delle élite, assediato nei centri cittadini e nei quartieri bene dalle periferie pentastellate. Non penso che il dato sociologico sia sufficiente per qualificare il M5S come nuovo partito di sinistra, poiché sempre a detta dello storico, è il programma che fa il partito di classe, ma esiste una potenzialità: alcuni punti di programma ci sono, come il reddito di cittadinanza e la reintroduzione dell’art. 18, e molti ex elettori di sinistra la pensano così: che il M5S sia il nuovo partito dei più deboli.
Infine, c’è l’esaurimento del renzismo. Fatto tutto quel che ha fatto, dopo il 4 dicembre 2016, perso il referendum costituzionale, Matteo Renzi e il suo gruppo non hanno più avuto nulla da proporre. Ora, i suoi sostenitori chiedono di non farne un capro espiatorio, di non addossare a lui responsabilità che hanno dimensioni storiche e globali. In parte, essi hanno ragione; in parte, devono però ammettere che se Renzi poteva essere glorificato per l’effimero dato elettorale europeo del 41%, qualcosa adesso tocca addebitargli per il ben più pesante 18% delle elezioni politiche. A lui, ai suoi collaboratori e sostenitori.
Al tracollo della sinistra hanno partecipato Liberi e Uguali e Potere al popolo. I primi, hanno mancato un risultato di rilievo nazionale, almeno il 5-6%, i secondi sono rimasti molto al di sotto della soglia di sbarramento. I due insuccessi mostrano che una non è la soluzione ai problemi dell’altra. Nella sinistra alternativa si può essere in continuità o in discontinuità, responsabili o radicali, moderati od estremisti, sobri o brilli, si perde lo stesso. Le spiegazioni tipo «Siamo appena nati», «Non ci hanno dato spazio», «Gli altri non hanno fatto un passo indietro», etc. oltre ad essere omissive, sono vittimistiche ed infantili, specie al tempo dei social media, dove si può esistere ed apparire anche senza essere invitati ai talk-show. L’unico momento in cui Liberi e Uguali ha determinato il dibattito politico è stato quando ha proposto l’abolizione delle tasse universitarie. Di Potere al popolo ci si è accorti solo per la proposta di abolire il 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Poi è certo vero che la logica maggioritaria e governativa e le sue leggi elettorali sono molto svantaggiose per le minoranze, specie se fuori dalle coalizioni, anche se quelle dentro non hanno certo fatto meglio, tuttavia questo non dipende da noi.
Per quale motivo si può scegliere di votare una minoranza? Perché evoca un passato di cui si ha molta nostalgia; perché evoca un futuro per il quale si ha una grande aspettativa; perché candida personalità molto attraenti. Liberi e Uguali ha evocato la nostalgia dell’Ulivo, dei Ds, del PD originario, ma è stata smentita da Prodi e Veltroni, più evocativi di D’Alema e Bersani, rispetto a quella esperienza che, in verità, al di fuori di un segmento simpatizzante, non è ricordata con grandi rimpianti, come invece accade per il PCI di Enrico Berlinguer. In più, Liberi e Uguali, nel rievocare l’Ulivo si è trovata in contraddizione con la sua collocazione e le sue dimensioni, nell’occupare lo spazio politico che fu di Rifondazione comunista.