PD, il voto politico alle Europee

È l’unica forza democratica in Italia che può eleggere deputati all’europarlamento e fare da argine all’estrema destra

Alle elezioni Europee del 26 maggio voterò per il Partito democratico. Scelta favorita dalla indicazione di voto di Laura Boldrini e dal candidato capolista del Nord-Ovest Giuliano Pisapia: una personalità di sinistra, già indipendente di Rifondazione comunista e apprezzato sindaco di Milano.

Scelta più difficile nel Nord-Est, dove il capolista è Carlo Calenda, uomo della Confindustria come pure di quei territori. Tuttavia, è una presenza tra le altre e in una strategia frontista delle alleanze, da Macron a Tsipras, ci sta anche la componente liberale.

In Italia, il PD è l’unica forza democratica che può eleggere eurodeputati. Le altre liste di sinistra (La Sinistra, +Europa, Europa verde), secondo gli ultimi sondaggi (1)(2)(3)(4)(5)(6)(7)(8), sono sotto la soglia di sbarramento del 4 per cento. Questa liste si presentano come cartelli elettorali improvvisati e frammentati, senza idee e candidati forti, per interpretare più un rito che una iniziativa politica. Parte del loro elettorato passato o potenziale è ormai assorbito dal M5S.

Il voto utile è in realtà il voto politico, quello che si propone, non solo di esprimere una preferenza ideale, ma anche di ottenere un risultato possibile. Eppure è un argomento valido solo se conciliato con il proprio orientamento e sentimento etico, pena il votare dissociati da se stessi. Quindi rispetto le scelte diverse dalla mia, anche se mi sembrano meno razionali, perché destinate a disperdere il voto. Il mio orientamento generale è compatibile con il PD e, secondo me, anche con La Sinistra: abbandonare il conservatorismo neoliberale e respingere i nuovi nazionalismi, nella prospettiva degli Stati Uniti d’Europa.

L’eredità ancora ingombrante del renzismo, non ha finora permesso un’analisi autocritica della sconfitta del 2018, tuttavia la caduta di Renzi e l’elezione di Zingaretti a segretario hanno arrestato lo spostamento a destra del PD. Nel programma elettorale democratico non c’è nulla di antisociale, anzi è improntato ad un Europa più democratica e solidale, a cominciare da un salario minimo comune. Una buona affermazione del Partito democratico, può consolidare la sua attuale direzione di sinistra e limitare una ripresa d’iniziativa delle sue opposizioni interne di destra.

Il PD appartiene al Partito socialista europeo; componente dell’attuale maggioranza europarlamentare. Votare per confermare la maggioranza democratica PSE-PPE, contribuisce a confinare populisti e sovranisti in una posizione di minoranza. Un cattivo risultato dei socialisti europei esporrebbe i popolari, molto più di quanto già accade, all’influenza dell’estrema destra.

I sovranisti hanno mostrato di essere pericolosi per la democrazia e la convivenza civile, con la loro mentalità fascista e la loro ostilità aggressiva contro i migranti e i diversi. Sono pericolosi anche sul piano della protezione sociale e della pace: nemici delle elite, ma amici dei padroncini locali, finirebbero con il mettere ogni singolo paese europeo uno contro l’altro, ciascuno più solo ed esposto agli effetti negativi della globalizzazione.

Vero che il sovranismo è un effetto della globalizzazione neoliberista e delle politiche di austerità. Questo però non vuol dire che l’antiliberismo possa fare a meno dell’antifascismo, dell’ampiezza delle sue alleanze, quando l’estrema destra diventa forza di governo o candidata ad esserlo. Quali che siano le cause, se una casa inizia a bruciare, il fuoco va spento subito. I socialisti europei ed i loro alleati, pur con tutti i limiti e gli errori, sono al momento gli unici vigili del fuoco disponibili, dotati di mezzi e attrezzature. Per Luiz Inacio Lula da Silva, il progetto europeo è “patrimonio dell’umanità” e spetta ai democratici il compito di difenderlo “dall’intolleranza dell’estrema destra”

P.s. Tra le candidature democratiche vi sono le più numerose adesioni alla campagna contro l’utero in affitto: Beatrice Covassi, Mercedes Bresso, Caterina Avanza, Isabella De Monte, Achille Variati, Patrizia Toia, Carmine Pacente, Carlo Calenda, Roberto Gualtieri, Simona Bonafé, Franco Roberti, Elena Gentile.

L’apologia di fascismo e il Salone internazionale del libro di Torino

La confusione tra il piano legale e il piano politico. L’astratta distinzione tra fatti e parole.

Locandina del Salone del libro di Torino 2019

La possibile presenza della casa editrice Altaforte al Salone internazionale del libro di Torino, ha riproposto la questione della legittimità della presenza attiva del fascismo nella democrazia, secondo una linea di divisione che separa chi sostiene la libertà di espressione senza limiti, per cui ogni idea può essere manifestata e ammessa e solo gli atti violenti devono essere vietati e perseguiti e chi invece pensa che le idee che legittimano l’odio e la violenza non debbano essere legittimate, al contrario di come ha mostrato di voler fare il ministro dell’interno Matteo Salvini, con la pubblicazione di un suo libro intervista con la casa editrice vicina a Casapound e con continui ammiccamenti alla fraseologia e simbologia fascista.

In principio, gli organizzatori del Salone hanno considerato l’affitto di uno stand alla casa editrice vicina a Casapound come una pura vicenda contrattuale ed hanno ritenuto non vi fosse una ragione legale per rescindere il contratto, di fronte alla protesta di alcuni scrittori e intellettuali antifascisti. Poi, a seguito di affermazioni apologetiche e provocatorie del capo di Altaforte, la sindaca di Torino Chiara Appendino e il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino hanno deciso di denunciare la casa editrice per apologia di fascismo. Infine, il Museo di Auschwitz e Halina Birenbaum, scrittrice sopravvissuta all’Olocausto, hanno posto l’aut aut al Salone del libro: o noi o loro. Il Salone ha scelto Halina Birenbaum.

Halina Birenbaum al Salone del libro di Torino

Sono felice per questo esito, tuttavia dinamica e epilogo della vicenda mi fanno pensare che con il venir meno dei testimoni diretti delle tragedie del nazifascismo sia destinato ad estinguersi anche l’antifascismo come valore egemone, secondo la regola per la quale la memoria storica di un popolo dura circa due o tre generazioni. Senza la scrittrice tedesca sopravvissuta alla shoah, l’assenza annunciata per protesta di Wu Ming, Zero Calcare, e altri come loro forse non sarebbe bastata.

Questa protesta non è stata condivisa da altre scrittrici e scrittori, che non hanno creduto nella possibilità di escludere gli editori fascisti ed hanno quindi rinunciato in partenza a chiedere tale esclusione agli organizzatori del Salone. Michela Murgia, nonostante non pensi che il fascismo sia una opinione politica, è stata un’esponente di questa posizione combattiva e rinunciataria e con un post su facebook ha fatto un’analogia, a mio parere sbagliata, tra il Salone del libro e il quartiere o le elezioni o il paese, cioé tra una manifestazione imprenditoriale, dove inviti e contratti sono a discrezione degli organizzatori, e luoghi o situazioni che sono necessariamente pubbliche e aperte a tutti.

Vignetta di Stefano Disegni

Questo errore dipende dalla confusione tra il piano legale e il piano politico. Una confusione molto forte nella posizione dei liberali o dei garantisti cosiddetti volterriani, che non condividono l’idea fascista ma sono disposti a dare la vita (contro gli antifascisti), per consentirle di esprimersi. Una posizione che distingue e separa in modo netto e assoluto gli atti di odio e violenza e le idee che propagandano odio e violenza o l’apologia del fascismo e considerano la censura di queste idee un’istituto illiberale: il reato di opinione. Tra i sostenitori di questa posizione troviamo, per dirne qualcuno che ho letto o ascoltato di recente: Marco Gervasoni (1), Andrea Colombo (1)(2)(3), Fabrizio Rondolino (1)(2), e più sfumato, articolato e problematico Luca Sofri (1).

Personalmente, sono d’accordo nell’agire con cautela quando si tratta di sanzionare, censurare, escludere, limitare sul piano legale, per esempio se si tratta di impedire ad una lista di candidarsi alle elezioni e di avere i suoi spazi nelle tribune elettorali. Lo stato liberale e democratico può doversi fare garante di una tale presenza e partecipazione. Tuttavia, io come parte in causa nella dialettica democratica, posso scegliere di non riconoscere e non legittimare quel concorrente, con il rifiuto di interloquire con lui o di invitarlo nei miei spazi se possiedo una televisione o una radio privata. Anche un tale rifiuto è una forma espressiva e, secondo un volterriano coerente, dovrebbe rientrare nella libertà di espressione da tutelare. Questa espressione non vuole negare l’esistenza dell’altro nello stato, vuole negargli il riconoscimento di una pari dignità politica e morale, vuole negare, per esempio, che razzismo e antirazzismo siano due opzioni di valore equivalente. Dunque, è stata lecita la protesta degli scrittori antifascisti e la decisione finale degli organizzatori del Salone del libro di Torino.

La distinzione netta, categorica, assoluta tra fatti e parole è un’astrazione. Sulla base di una tale distinzione non sarebbe possibile identificare e perseguire la violenza psicologica, che può essere più letale della violenza fisica. Dire «A morte gli ebrei», non è come fare un pogrom o sterminarli in un lager, ma ciò non basta per tollerarlo. Cosa significa consentire di farne uno slogan? Di dirlo a ridosso di violenze antisemite? Di dirlo come pratica di attivismo politico organizzato? Cosa significa concedere, anzi valorizzare come principio, la libertà di espressione razzista (poiché fatta soltanto di parole), che riflessi ha sulla libertà degli ebrei, dei neri, dei rom o di altri diversi? Cosa significa consentire di manifestare contro la legittima assegnazione di una casa e poter dire ad una mamma rom, Troia, ti stupriamo, per la libertà di quella donna e dei suoi simili?

Per intimidire, azzittire, emarginare, spesso si usano solo le parole. Posso essere d’accordo con una sentenza della Corte Costituzionale del 1957, di non perseguire l’apologia di fascismo come mera difesa elogiativa del fascismo, ma di perseguirla solo quando è praticata in funzione della riorganizzazione del disciolto partito fascista. È appunto di questo che parliamo riguardo gruppi come Casapound: di attivismo politico, non di chiacchiere dette al bar o in osteria. Questi gruppi alternano modalità di espressione decente con modalità di espressione violente, per non dire autentiche aggressioni, come quella di Casal Bruciato o quelle che mostrano in foto l’editore di Altoforte Francesco Polacchi e altri suoi sodali armati di bastone. Di fronte a questi atti violenti la voce dei volterriani è molto debole o del tutto silente, pare che la loro condanna sia sottointesa e vada data per scontata, diversamente dall’impegno da essi impiegato nella polemica contro gli antifascisti.

Se è giusto dimissionare un indagato

Non può esistere un determinismo giudiziario sulla sorte dei politici come neppure una impermeabilità della politica alle vicende giudiziarie.

Secondo Sabino Cassese, il sottosegretario ai trasporti Armando Siri non può essere allontanato dal suo incarico, perché ha solo ricevuto un’informazione di garanzia.

(…) in un campo come questo bisogna rispettare le regole del diritto, il presidente del consiglio dei ministri è un professore di diritto, Siri in questo caso, per questa questione, non per altre questioni, è solo indagato, non è imputato e non è condannato, e quindi finché non viene imputato o condannato lui non può essere allontanato, può prendere lui una decisione di allontanarsi, di dimettersi, come qualcuno ha chiesto, che sia una decisione individuale di Siri, ma non vedo perché per il fatto che lui ha avuto un’informazione di una indagine che è in corso su di lui, non essendoci ancora la conclusione (…) — Piazzapulita 02.05.2019

Secondo me, invece, ci sono elementi sufficienti, per dire che il sottosegretario indagato ha agito allo scopo di usare denaro pubblico nell’esclusivo interesse privato di un’azienda, indipendentemente dal rilievo penale del fatto (può aver agito così, anche senza essere stato corrotto), e quindi per concludere, dal mio punto di vista, che non ci sono più le condizioni per collaborare con lui. Le dimissioni non sono una condanna o una punizione, ma la condizione di una separazione.

Sabino Cassese ha ragione in parte: è vero che un avviso di garanzia non deve, in modo automatico e necessario, determinare le dimissioni da un incarico politico o istituzionale, secondo quanto afferma invece il rigido principio giustizialista che esclude a priori gli inquisiti. Tuttavia, ad esso si oppone un altrettanto rigido principio garantista, che pretende di mantenere inclusi gli inquisiti fino alla condanna definitiva, o in primo grado, o al rinvio a giudizio, a secondo del livello di rigidità. Entrambi i principi subordinano l’ordine politico all’ordine giudiziario.

La presunzione di innocenza vale nel procedimento penale. La dinamica politica ha criteri suoi propri, indipendenti da quelli della giustizia, la quale ha, giustamente, procedure più meticolose e tempi più lunghi, poiché deve decidere della libertà di un individuo, che vale ben di più della sua carriera. I modi e i tempi della politica sono invece più veloci, meno formali e dipendono dal consenso per gli eletti; dalla fiducia per i nominati.

Un’accusa riguardante un determinato reato, il modo in cui l’accusato mostra di difendersi, i comportamenti accertati, i precedenti, la sua credibilità in rapporto ai sospetti, possono confermare, non condizionare o far venire meno il consenso degli elettori o il rapporto di fiducia di coloro che sono preposti alla nomina e alla collaborazione. Dunque, è lecito, e non viola alcuna regola del diritto, che un presidente del consiglio non abbia più fiducia in un membro del suo governo e voglia proporne l’allontanamento, anche a partire da un avviso di garanzia.

Il venir meno del consenso o della fiducia, come la loro conferma, possono essere criticati sul piano dell’opportunità, ma non sul piano del diritto. Se una fidanzata o una moglie decidesse di lasciare il partner, perché indagato su un possibile reato, non le si potrebbe dire che la sua separazione viola le regole del diritto, la presunzione d’innocenza, che prima di potersi separare deve attendere la sentenza o almeno l’imputazione. Il rapporto di collaborazione politica è più prossimo al rapporto sentimentale che al procedimento penale.

Maria Elena Boschi e l’ipotetica alleanza PD-M5S

Contro ogni ipotesi di accordo con il M5S, la deputata democratica punta sul fallimento del governo giallo-verde, per tornare a vincere, ma il PD non è autosufficiente.

Maria Elena Boschi — Trento Festival dell’Economia

Intervistata da La Stampa di Torino, in risposta alle aperture di Graziano Del Rio, Maria Elena Boschi esclude ogni ipotesi di alleanza tra il suo partito e il Movimento cinque stelle, perché i grillini sono un partito giustizialista, incompetente e assistenzialista, che ha portato l’Italia in recessione. Singoli provvedimenti condivisi possono esserci, un governo M5S-PD invece no: «Quando il loro fallimento sarà evidente toccherà a noi, come già in passato, ricostruire tra le macerie».

Secondo Maria Elena Boschi, il tema delle alleanze è un punto centrale in tutta Europa, per questo la riforma istituzionale da lei firmata, andava verso un sistema più semplice, che permetteva al vincitore di governare. La lista del partito di Zingaretti, molto ampia ed inclusiva, si avvicina al modello della vocazione maggioritaria, anche se maggioritaria non lo è ancora, ma lo diventerà quando Salvini e Di Maio dovranno toccare il portafoglio degli italiani con una nuova legge di bilancio. La deputata democratica non crede agli accordi vecchio stile con Forza Italia. Lei scommette sul coinvolgimento dell’elettorato progressista e moderato su una piattaforma credibile, come ci riuscì Renzi alle Europee del 2014 e al referendum del 2016, conquistando in entrambi i casi il 41 per cento.


L’impostazione di Maria Elena Boschi rifiuta di fare i conti con l’assetto tripolare del quadro politico: un po’ sopra il 30 per cento o intorno al 20 per cento, esistono tre forze politiche principali; nessuna è autosufficiente. Bisogna allora metterne insieme due, per governare il paese. Il PD può puntare ad allearsi con la Lega o con il M5S; oppure restare all’opposizione e lasciare il governo a questi due partiti. Scegliere la Lega è improponibile, perché è un partito di estrema destra. Rimane il M5S, un partito ambidestro. L’operazione si può fare con un ribaltone o con un accordo dopo elezioni politiche anticipate. Le quali, però, ad oggi potrebbero essere vinte dal centrodestra con la Lega di nuovo alleata di Forza Italia.

La deputata democratica invece spera che alle future elezioni politiche, dopo il fallimento del governo giallo-verde, il PD da solo o alleato con liste minori affini, conquisti il 40 per cento e ottenga il premio di maggioranza. La speranza sarebbe corroborata da due precedenti: le Europee del 2014 e il referendum costituzionale del 2016. Di tale speranza, la prima cosa che lascia perplessi è il veder mettere insieme i due risultati. Il primo fu una vittoria inaspettata, un 40 per cento ottenuto in competizione con un M5S in ascesa e molte altre liste; fu un risultato che costituiva una maggioranza relativa molto forte, un primato di partito ai livelli della Democrazia cristiana: la definitiva incoronazione di Renzi. Il secondo fu una sconfitta cocente, un 40 per cento, ottenuto tra sole due opzioni, Si o No; fu un risultato minoritario, una netta sconfitta; la caduta di Renzi. Assumere questo 40 per cento tutto in quota PD è un calcolo già fatto dai renziani che, abbiamo visto, alle Politiche ha portato solo al 18 per cento. Perché insistere?

Dubito che il tema delle alleanze, complicato in tutta Europa, dia ragione in retrospettiva alla riforma costituzionale di Renzi e Boschi, perché se è vero che essa assegnava facilmente il governo ad un vincitore, è altresì vero che quel vincitore era il risultato di un’alterazione del voto e non di un consenso maggioritario reale nel paese, condizione essenziale per un governo stabile. C’è da ricordare che nella precedente maggioranza di centro-sinistra, i problemi alla stabilità non venivano dal rapporto tra il PD e i suoi alleati minori, ma dalle stesse divisioni interne al PD, poiché la sua politica entrava in conflitto con una parte della sua base elettorale. Come che sia, la maggioranza dell’elettorato, con il referendum, ha deciso che i problemi del paese non dipendono dal senato e dall’assetto istituzionale, su cui invece si è concentrato il governo Renzi, ma dalle questioni economiche e sociali, sulle quali quel governo è stato bocciato.

Il primo dei due risultati, il 40 per cento delle Europee 2014, fu ottenuto dal PD con l’elargizione degli 80 euro mensili in busta paga ai redditi medio-bassi e con le aspettative generate dall’affermazione del nuovo leader Matteo Renzi. Due condizioni difficili da ripetere, tanto che il PD non le ha più ripetute nelle elezioni successive. Non può elargire soldi, perché non è al governo e non può improvvisare un nuovo leader carismatico. Improbabile che basti il fallimento degli altri, per ottenere di rimbalzo il primato, addirittura fino al 40 per cento. Il fallimento del governo giallo-verde, per adesso vediamo, penalizza solo il M5S, mentre fa volare la Lega nei sondaggi. A beneficiarne quindi potrebbe essere il ritorno del centrodestra. O l’emergere, sempre in quell’area, di una nuova formazione politica, tipo Fratelli d’Italia, già messa meglio delle formazioni di sinistra minori: Giorgia Meloni è la terza leader più popolare sui social.

La cosa più saggia è, quindi, tentare subito dopo le Europee un accordo con il M5S, al quale può contribuire anche una nuova Forza Italia magari guidata da Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo. Non sarebbe una congiura di palazzo, ma la dinamica normale di una repubblica parlamentare. Un accordo che isoli la Lega all’opposizione, in quanto partito xenofobo, e si fondi su tre temi: ambientalismo, europeismo e protezione sociale. Questo implica, per le due formazioni, non di redimersi, ma di fare autocritica: il PD sul Jobs Act, come suggerisce Luciana Castellina; il M5S su molti provvedimenti securitari votati insieme alla Lega, come ricorda Lucia Annunziata. Entrambi i pariti possono seguire l’esempio spagnolo del PSOE e di Podemos. Forse, non sarebbe Maria Elena Boschi, insieme con gli altri renziani, la più adatta ad interpretare questa politica, dati i conflitti in cui è stata coinvolta e la mancanza di idee nuove. Però, potrebbe lasciarla fare al gruppo dirigente emerso dalle primarie di marzo, senza intralciarla, stando un po’ di tempo in panchina, per poi magari recuperare un ruolo più attivo in futuro.

Va infine considerato che scommettere sul fallimento altrui (che potrebbe essere meno netto di quanto si scommette), per realizzare il proprio successo, come stategia evoca troppo le logiche del tanto peggio tanto meglio, del gioco d’azzardo o della ruota della fortuna; ti mette nella posizione di quelli che Renzi chiamava i gufi. Logiche condivise e sostenute da Matteo Renzi e dai renziani rimasti. La drammatica frase di Maria Elena Boschi «Quando il loro fallimento sarà evidente toccherà a noi, come già in passato, ricostruire tra le macerie» evoca la citazione di Antonio Gramsci «Voi fascisti porterete l’Italia alla rovina e toccherà a noi comunisti salvarla» Lo disse durante il processo che lo condannava a vent’anni di carcere, in risposta al giudice che gli domandava cosa avrebbero fatto i comunisti se l’Italia fosse entrata in guerra. Gramsci ebbe ragione, ma condannato al carcere, poteva solo limitarsi ad avere ragione, senza poter far nulla per evitare quella rovina, che fu davvero disastrosa per l’Italia e l’Europa, non certo una scommessa ben riuscita.