Da giovane mi definivo comunista. Come sostantivo (l’adesione al Partito) e come aggettivo (idee e ideali). Quasi lo stesso posso fare oggi: perduto il sostantivo, ho mantenuto l’aggettivo. Sono però più cauto nel definirmi. Le mie idee potrebbero meglio corrispondere ad un’altra definizione (es. socialdemocratico). Il mio nome preferito (comunista) è usato anche da persone, gruppi e regimi con idee molto diverse da quelle che penso di professare io. Infine, potrei dover fare ancora molta strada prima di potermi definire con un nome così tanto impegnativo. Allora, se non è proprio necessario, evito di autodefinirmi. Per le stesse ragioni, evito di definirmi femminista. Ma di fronte ad una campagna contro l’uso di questi nomi, penso invece di volerli rivendicare.
Ha quindi fatto bene Joseph Gordon Levitt a dichiararsi femminista, perchè non vuole farsi definire dal genere ed è contro le discriminazioni, quando il suo intervistatore gli ha ricordato la campagna virale «Women against feminism». Ha dato un buon esempio agli altri uomini.
Ha scontato però la disapprovazione di Matteo Persivale sulla 27esimaora: è ridicolo l’uomo che si dice femminista come il bianco che si dice nero. Perchè non può veramente conoscere la condizione della discriminazione. L’uomo resta sempre uomo. La sua identità è una uscita di sicurezza. Può dirsi «uomo di buona volontà» dare il buon esempio, non ripetere gli errori del passato.
In effetti, ci sono uomini che si dicono femministi per posa, per darsi uno sfondo tra gli altri (l’ambientalismo, il pacifismo, l’animalismo), senza intraprendere un impegno o riconoscere una priorità. Altri, ancor peggio, si avvicinano al femminismo come i pedofili si avvicinano alla chiesa cattolica, alle scuole o all’associazionismo sportivo giovanile. Dunque, il rapporto tra uomini e movimento delle donne va valutato con cautela.
Un bianco può dirsi nero, senza essere ridicolo, se con ciò esprime empatia e solidarietà. Nel 1963, il presidente Usa John Kennedy davanti al Muro di Berlino dichiarò: «Io sono berlinese». Nel 2001, dopo l’attentato alle torri gemelle, il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio De Bortoli, titolò «Siamo tutti americani». Il leader degli zapatisti, il subcomandate Marcos, definì il senso della sua identità nel seguente modo: «Marcos è gay a San Francisco, un nero in Sud Africa, un asiatico in Europa, un chicano a San Isidro, un americano in Spagna, un palestinese in Israele, un indigeno per le strade di San Cristóbal, un ebreo in Germania, una femminista in un partito politico, un pacifista in Bosnia, una casalinga in un qualunque sabato sera in una zona qualunque del Messico, uno studente in sciopero, un contadino senza terre, un editore underground, un lavoratore disoccupato, un dottore senza pazienti e, certo, uno zapatista nel sud-est del Messico».
Tuttavia, Joseph Gordon Levitt ha dichiarato di essere femminista, non di essere femmina. Prima di tutto, per poter essere ciò che vuole, indipendentemente dal genere. Di certo è un uomo e resta tale, ma cosa vuol dire oltre il dato biologico? In un mondo ancora sessista, il mio essere uomo condiziona il mio essere individuale, ma questo è ciò che voglio superare.
Se «femminista» suscita eccessiva paura nel compromettersi con la propria mascolinità, esistono alternative come antisessista, profemminista, filofemminista. Perchè sfumare così tanto in una definizione apolitica e generica come «Uomini di buona volontà»?
Che un uomo non viva la condizione di una donna, non gli impedisce di essere femminista. Semmai gli concede il lusso di non esserlo. Il presunto impedimento rinforza l’identità maschile come uscita di sicurezza rispetto a tutte le mancanze di buona volontà: «Sono pur sempre un uomo, cosa vi aspettate da me?»
Il sessismo è una delle gerarchie del mondo. Forse la principale, ma non l’unica. Ve ne sono altre, il razzismo, il classismo, le diseguaglianze prodotte dalla globalizzazione. A parità di relazione, la donna è svantaggiata. Lo affermarono bene quelle femministe francesi che nel 1970 a Parigi, sotto l’Arco di Trionfo, dove ha sede il monumento al milite ignoto, deposero una corona di fiori con la celebre scritta «Il y a plus inconnu ancore que le soldat: sa femme» (C’è qualcuno ancora più ignoto del soldato: sua moglie).
Tuttavia il soldato conosce la condizione di ignoto. Un uomo non vive con la paura di essere stuprato, ma può conoscere lo stupro se detenuto in carcere. Non ha paura di uscire solo la sera, finché non diventa anziano. Non conosce le molestie sul lavoro, ma può subire il mobbing, specie se ultracinquantenne. Sotto il servizio militare, può conoscere il nonnismo. Da scolaro, da studente, da ragazzo di strada, può subire il bullismo. Un uomo difficilmente vive nella paura di sua moglie tra le mura domestiche. Ma da bambino, da adolescente, può aver subito abusi o essere stato vittima di violenza assistita. Gli uomini possono persino conoscere il significato gerarchico della galanteria, quando nelle aziende o negli uffici della pubblica amministrazione i dirigenti aprono la porta o cedono il passo agli impiegati.
Gli uomini sono meno oppressi e svantaggiati delle donne, a parità di relazione, ma possono conoscere l’oppressione e lo svantaggio e dunque anche imparare ad immedesimarsi nella condizione delle donne. Il potere maschile sulle donne funziona da padre e da modello per tutti gli altri poteri. Gli uomini simboleggiano il dominio su altri uomini, trattandoli come donne. Parafrasando Primo Levi, si può dire che ognuno è donna di qualcuno.
Così, non solo ogni donna, ma anche ogni uomo è potenzialmente un femminista.