La presunzione di connivenza per i musulmani

Moschea di Torino

Secondo La Stampa, gli aspiranti califfi vogliono mandare al potere i razzisti in Occidente e creare le condizioni per innescare la guerra di civiltà. Secondo me, possono darsi un obiettivo più ambizioso: trasformare i democratici in razzisti in modo che la guerra di civiltà diventi la psicologia dell’opinione pubblica. In questo senso, l’ultimo buongiorno di Massimo Gramellini vale più di un leghista ministro.

Succede, dopo un attentato di matrice jihadista o presunto tale, che professionisti del giornalismo si appellino ai musulmani moderati affinché facciano sentire la loro voce contro il terrorismo, come se condanne e manifestazioni delle associazioni musulmane non vi fossero mai state o non fossero credibili. Il direttore creativo della Stampa va oltre e chiede atti di denuncia giudiziaria, indicando come modello Guido Rossa, sindacalista comunista, ucciso dalle BR nel 1979, per aver denunciato un brigatista nella sua fabbrica.

Il parallelo storico tra il terrorismo islamista e gli anni di piombo in Italia stabilisce un’equazione molto astratta: i brigatisti stanno ai jihadisti come i comunisti stanno ai musulmani moderati.

Le BR erano un partito verticale, formato da cellule isolate dipendenti dal vertice; compivano attentati dimostrativi e simbolici contro un ordinamento democratico. Quel partito armato fu sconfitto, non tanto perché gli operai comunisti gli fecero il vuoto intorno, quanto perché non gli fecero mai il pieno. Ad aver ragione di circa un migliaio di militanti terroristi furono, non le denunce operaie, ma le dissociazioni dei brigatisti in carcere, che denunciarono gli ex compagni, per poter usufruire degli sconti di pena, previste dalle leggi d’emergenza. Il Jihadismo è un insieme di gruppi e di lupi solitari, che agiscono spesso in autonomia a livello globale, in un contesto che va dalle macerie delle guerre occidentali in Medio Oriente, dove svolge anche opera di Welfare, all’emarginazione sociale ed esistenziale degli immigrati di terza generazione nelle periferie europee, in particolare in Francia, paese ex coloniale, in prima linea della guerra in Siria contro l’Isis.

Il PCI era un grande partito di massa, retto da un apparato gerarchico, che agiva nella fabbrica e nei quartieri operai, cioé nel contesto di grandi integratori sociali, e conduceva contro il terrorismo una lotta per la legalità repubblicana e pure per risolvere un suo complesso di legittimazione. I musulmani (moderati o no, comunque, non violenti) sono decine di milioni di persone in Europa; non sono inquadrati in un partito e nemmeno in una chiesa, non si può pretendere si diano una linea politica, come se avessero un comitato centrale.

Guido Rossa fu l’eccezione, non la regola. Egli fu ucciso, dopo essere stato lasciato solo dai suoi compagni delegati a denunciare il brigatista della sua fabbrica. Negli anni più recenti, abbiamo scoperto che i piemontesi e i lombardi evitano di denunciare l’ndrangheta e la mafia come i calabresi e i siciliani. Da molte pagine di cronaca nera, apprendiamo che spesso un assassino è per i suoi conoscenti una «brava persona» che nessuno avrebbe mai immaginato capace di commettere un delitto. Per l’omertà, basta la paura, per l’indifferenza o la semplice non conoscenza bastano contesti urbani senza socialità, non occorre ipotizzare una cultura o addirittura una perversa solidarietà religiosa e (razziale?), salvo credere che la paura sia un’istinto della nostra cultura superiore, mentre gli altri siano più predisposti al martirio ed abbiano solo da scegliere se porlo al servizio del bene o del male.

Tra i nostri valori, a fondamento della nostra civiltà giuridica, c’è la presunzione di innocenza. È un bel guaio, se le nostre firme ritenute più valide congetturano, per i musulmani, la presunzione di connivenza, poiché a parer loro una lingua, una religione, una nazionalità in comune farebbero un rapporto di complicità fino a prova contraria. Di questo passo, è logico che l’antirazzismo diventi lo scambio di un patto (tra chi?) e non un principio incondizionato.

Poiché parlo la stessa lingua di Gramellini e condivido con lui la cultura laica, la nazionalità italiana e la residenza comunale, sento il bisogno di dissociarmi da quanto scrive, pur senza essermi mai sentito associato ad una visione secondo la quale l’Occidente accoglie stranieri potenzialmente ingrati e complici di un nemico. Una visione che rimuove: il debito coloniale; il lavoro e il contribuito degli immigrati; la distinzione tra appartenenza religiosa e nazionale. Molti musulmani sono europei convertiti, molti altri sono figli di seconda e terza generazione, nati e cresciuti in Europa, quindi non ospiti, ma cittadini europei.

A proposito di lingua, trovo poco sensata l’idea di imporre l’italiano nelle moschee, con l’ingenuo retropensiero che nei luoghi di culto musulmani si diffondino in lingua araba idee e propositi criminali. Un tale obbligo imposto dallo stato laico alla liturgia religiosa, non potrebbe generare un clima di nuova fratellanza, secondo i migliori propositi del direttore contraddetti da tutto il suo articolo all’insegna del «noi e voi». Sarebbe più utile fosse lui ad imparare l’arabo. Conoscerebbe meglio un’altra cultura e potrebbe più efficacemente vigilare con le sue stesse orecchie.

Stranieri e case popolari a Torino

Case popolari Torino

Alla direzione regionale del PD piemontese, Piero Fassino ha dichiarato che l’immigrazione in Italia sta superando la soglia oltre la quale diventa ingovernabile e può travolgerci. In campagna elettorale è stato il tema che sempre le persone gli mettevano davanti. Il più sentito nelle periferie dove gli immigrati sono visti in competizione per la casa, il lavoro, il welfare e dove il PD ha avuto i risultati peggiori. Per esempio, nell’assegnazione delle case popolari, il criterio basato sulla composizione dei nuclei familiari premia sempre più spesso le famiglie immigrate, che fanno più figli. Bisogna domandarsi fino a quando la graduatoria unica è sostenibile.

L’allarme di Fassino trova una sponda nella richiesta di Marcello Mazzù, presidente dell’Agenzia territoriale per la casa (ATC), di rivedere la legge regionale del 2010 approvata dalla maggioranza di Mercedes Bresso. La nuova legge ha abrogato i tre anni di lavoro regolare necessari ai soli stranieri per poter accedere alle assegnazioni. Così, le case popolari assegnate agli immigrati sono aumentate dal 10-15% al 30%. A fronte di una popolazione straniera solo del 15%, sottolinea Repubblica.

Tuttavia, vedere una ingiustizia nel divario percentuale tra assegnatari e residenti è molto arbitario. Gli stranieri sono presenti in misura differente nei diversi gruppi sociali. Sono di più tra gli inquilini come sono di meno tra i proprietari. Il rapporto da osservare è quello tra richiedenti e assegnatari. Allora si vede che le proporzioni tornano, anzi sono ancora a vantaggio degli italiani. Infatti, i non italiani assegnatari sono il 39% nel 2015 a fronte di un 53% di richiedenti, mentre gli italiani assegnatari sono il 61% a fronte di un 46% di richiedenti.

Inoltre, va notato che la percentuale di immigrati assegnatari non sta aumentando in modo esponenziale: è triplicata con l’entrata in vigore della nuova norma tra il 2012 e il 2013, per poi stabilizzarsi. La definizione dei requisiti a prescindere dalla nazionalità dei richiedenti rispetta il principio costituzionale dell’eguaglianza davanti alla legge ed è in linea con il proposito di accogliere, integrare, regolarizzare la presenza degli stranieri in Italia. Mi domando infatti cosa significhi invocare il governo del fenomeno, se poi ci si mette sul piano inclinato delle segregazioni, per poter lasciare in mezzo alla strada le famiglie immigrate più numerose.

Mi chiedo ancora come si possa governare l’immigrazione, nello schema della guerra tra poveri, con la scelta di stare dalla parte dei nostri poveri. Un buon governo richiede una politica di giustizia tra tutti i ceti sociali. A Torino, il 68% delle case popolari è stato costruito prima del 1981 e il 18% tra il 1981 e il 1990. Si possono dunque fare nuovi investimenti pubblici per costruire nuove case popolari, se le assegnazioni risultano insufficienti. Oppure si possono indurre i proprietari di alloggio ad affittare ad un costo accessibile le case sfitte esistenti in città (30 mila secondo il censimento del 2001).

Infine, c’è qualcosa che è possibile fare subito e non costa nulla: riconoscere il ruolo decisivo degli immigrati nel mantenimento del nostro welfare. Che l’assegnazione di alcune centinaia di alloggi popolari a persone immigrate, in una grande città del nord, faccia parlare l’ex primo cittadino di ingovernabilità e travolgimento, con conseguenti titoli sui giornali, finisce per rinforzare paura e ostilità. Un conto è comprendere un sentimento popolare diffuso, un altro è farsi megafono della pancia, per trattare gli immigrati come capro espiatorio dell’insicurezza sociale. E della sconfitta elettorale.

La presenza immigrata a Torino è, tra l’altro, in calo. Sono 136.262, in diminuzione, per il terzo anno consecutivo, di n. 1.814 unità i cittadini stranieri residenti, pari al’15% della popolazione totale (come dal 2013, mentre nel 2012 costituivano il 16% della popolazione totale).