Italia, un decimo possiede metà della ricchezza

L’impresa per competere comprime il costo del lavoro, il salario di operai e lavoratori dipendenti. Lo stato per risanare le sue casse blocca gli stipendi del pubblico impiego e taglia migliaia di posti di lavoro nella scuola. Il tutto in un contesto di crescente diseguaglianza sociale. E’ un dato europeo, ma soprattutto italiano. Secondo Bankitalia e Osce, in Italia il 10% della popolazione possiede il 44% della ricchezza nazionale. Lo conferma l’Osce. Secondo, l’economista liberale Geminelllo Alvi, dal 1980 al 2000, il rapporto tra capitale e lavoro nella quota del PIL si è invertito, passando da 4-6 a 6-4. L’incapacità o la non volontà di redistribuire il reddito è forse la principale causa di fallimento dei governi di centrosinistra. Io non sono per fissare un tetto agli stipendi, ma imporre una forte tassazione progressiva si. Sui megastipendi, sulle rendite, sui patrimoni. Di politici, giornalisti, magistrati, e in particolare di manager, imprenditori e finanzieri.

Nel calcio i costi sono lievitati alle stelle su impulso delle campagne acquisti del Milan. Le star televisive sono strapagate per gli introiti pubblicitari che portano e perchè c’è una concorrenza. Mediaset paga di più allora anche la Rai paga di più. Perciò, diventa impossibile mettere un tetto. Vorrebbe dire essere meno competitivi. In modo strumentale, si concentra il fuoco sui compensi di Michele Santoro. Ma nel 2007 Pippo Baudo prese 750 mila euro per condurre il festival di Sanremo. Michel Huzinker un milione. Un milione ha preso anche Paolo Bonolis nelle edizioni successive. 300 mila euro sono stati messi in palio per il Grande Fratello. 800 mila euro l’anno prende Simona Ventura. Antonella Clerici un milione e mezzo. Tra i 400 e i 700 mila euro prendono Lamberto Sposini, Massimo Giletti, Michele Cucuzza, Michele Santoro. Milly Carlucci prende un milione e duecentomila euro. Fabio Fazio ha un contratto per due milioni all’anno. Nel 2007, il governo di centrosinistra, con una circolare del ministro Nicolais, ha escluso la RAI dal provvedimento che fissava il tetto ai compensi dei dirigenti pubblici a 272 mila euro, pari a quello del presidente della Corte di Cassazione.

Stesso discorso per i manager – vedi classifica bonus e stipendi – il cui principale compito è divenuto quello di ottenere buoni dividendi. Questo è la ragione per cui bisognerebbe intervenire con la leva fiscale. Ma il fisco è statale, i flussi finanziari sono sovranazionali, i soldi si spostano dove sono tassati meno. Mentre noi abbiamo paura dei flussi migratori, sono i flussi finanziari a mandare in bancarotta gli stati e a drenare risorse dai salari e dalle pensioni con ogni manovra correttiva, con ogni finanziaria di risanamento. Il rapporto di forza tra capitale e lavoro si è modificato a favore del capitale. E’ successo con l’innovazione tecnologica e le delocalizzazioni. Con il ritorno del neoliberismo, con la moltiplicazione dei contratti atipici. Con l’abolizione della scala mobile. Con le privatizzazioni. Nel contempo gli investimenti si sono spostati dalla produzione alla finanza e in questo spostamento si è provato a coinvolgere anche i lavoratori dipendenti, persino i precari e i disoccupati. Alla forbice dei redditi non si è opposta una adeguata resistenza, perchè ad essa non è subito corrisposta una forbice dei consumi. Perchè la perdita del potere d’acquisto specie per i più giovani è stata in parte compensata dal sostegno dei salari e delle pensioni di genitori e nonni, ma soprattutto dall’accesso al credito, dal gioco in borsa, dall’illusione del capitalismo popolare. Siamo tutti proprietari di una casa. Questa via è probabilmente arrivata al capolinea, all’insolvenza, alla crisi finanziaria globale, alla situazione greca. Però, siamo del tutto disarmati perchè ci manca un partito del lavoro.

Su alcune reazioni alla morte di Cossiga

Un mio conoscente mi raccontò che quando morì Craxi brindò per la sua scomparsa. Non avevo una grande stima di Craxi, ma quell’affermazione mi infastidì.

La stessa cosa la sto provando in questi giorni leggendo e sentendo i commenti rivolti a Cossiga.

Per quanto io possa disprezzare idee e comportamenti di qualcuno, non riesco a gioire per la sua morte o vedere la sua morte come una forma di giustizia (naturale o divina) per la dubbia condotta.

Con questo non voglio dire che la morte riabilita o fa dimenticare le nefandezze condotte in vita dall’individuo, anzi… ma acclamare la morte la vedo come una mancanza di rispetto della propria e altrui dignità umana.

Moralità e moralismo

L’accusa di moralismo è usata contro i cattolici bigotti, ma anche contro chi vuole semplicemente il rispetto delle leggi o dei principi universali, quali quelli scritti nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo. Come districarsi? Potremmo metterla così. Esistono tre criteri di giudizio fondamentali, riassumibili in tre domande. 1) E’ legittimo? Risponde la legge. 2) E’ conveniente? Risponde il proprio senso di opportunità. 3) E’ giusto? Risponde la propria regola morale. Solo la prima risposta è oggettiva, poichè la legge è scritta, al limite bisogna interpretarla. La seconda e la terza invece sono soggettive. Ciascuno ha il proprio senso dell’opportunità, la propria regola morale. Esiste un senso comune, ma muta nello spazio e nel tempo, senza che ci sia un atto che formalizza il cambiamento.

Allora, il moralismo può essere questo: posti di fronte ad un fatto, porsi il solo criterio di giudizio della regola morale, domandarsi “E’ giusto”, senza chiedersi anche se “E’ legittimo?” e se “E’ opportuno?”. D’altra parte, esiste anche un immoralismo, ed è quello che rimuove la domanda della regola morale, ponendosi solo le altre due o solo quella relativa al senso di opportunità. C’è poi il dilemma della precedenza. Posso pormi tutte e tre le domande e darmi risposte in contraddizione tra loro. Qui è moralista, dare sempre la precedenza alla regola morale, ma è immoralista sempre negargliela. In sintesi, è atteggiamento laico, porsi tutti e tre gli interrogati e, di volta in volta, valutare quale risposta debba avere la precedenza sulle altre.

L’uso italiano e inverecondo dell’esecrare il moralismo per liberarsi della moralità è una vecchia trappola, alla quale si può sfuggire solo se si hanno convinzioni forti e non si cede al realismo da quattro soldi, che spinge ad accettare qualsiasi cosa in nome d’una politica senza respiro.
(Stefano Rodotà)

La donna nei testi sacri

Sul sito Lisistrata, compare un intervento di Paolo Mantellini che propone un limitato sostegno ai musulmani riformatori, ma afferma in sostanza che l’Islam non è riformabile. Perchè? Per quello che c’è scritto sul Corano. Per esempio sul ruolo della donna. Così, il prof. Mantellini ingaggia una disputa interpretativa, con Chiara Scattone riproponendo le più note interpretazioni e traduzioni “maschili” di questo versetto:

Le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle, ché Iddio è grande e sublime”.
dove per Chiara Scattone, e per la studiosa irano-statunitense Laleh Bakhtiar, la parola tradotta in “battetele” potrebbe invece significare “andar via”. Lettura che, a mio modesto parere, ha maggior senso in relazione alle parole immediatamente precedenti.

Per quanto lo si interpreti, secondo il professore, quel testo sancisce l’oppressione sessuale. E di fatto nelle odierne società islamiche, le donne se la passano molto peggio delle loro colleghe occidentali. La civiltà giudaico-cristiana avrebbe permesso la parità dei sessi, quella islamica l’avrebbe invece impedita. La tesi non è nuova nella pubblicistica islamofoba, si veda Il Corano letto da Vittorio Feltri, pag. 87. ripreso nel 2004 dal blog Macchianera.

Le donne? Per Maometto sono inferiori
di Vittorio Feltri

Il Corano che cosa pensa delle donne? C’è un versetto molto chiaro. Sura II [detto della “vacca”], 228: «Ma gli uomini sono un gradino più in alto». Usa proprio questa formula il Libro Sacro: i maschi sono superiori. Non è una frase suscettibile di interpretazioni.
[. . .]
Questa inferiorità è strutturale, ed essa è la chiave di volta su cui è costruita la società. Insomma, la donna non è vittima di qualche incidente di percorso, per cui basta un ritocco qua e là delle leggi o della mentalità. No, è minorata per volontà divina, ed anzi la vita comune si regge su questo principio. Il resto discende come conseguenza: nessun ruolo direttivo, nessuna possibilità di organizzare per sé un minimo di vita individuale. La schiavitù è sancita e benedetta. Non sono teorie religiose, ma sono diventate immediatamente leggi politiche dove l’Islam è al potere, e pratiche familiari dove sono (per ora) in minoranza. Non illudiamoci: gli ayatollah imporranno a tutti questa visione del mondo appena potranno, perché per essi non c’è distinzione tra sfera spirituale e politica, tra morale cranica e legge dello Stato. Si pone un’altra questione seria. Le comunità musulmane presenti in tra noi possono trattare così le donne in barba alle nostre norme e consuetudini?

Una religione dalle origini femministe in verità non è stata ancora conosciuta. Tutti i testi sacri sono opere antiche espressione di contesti patriarcali. Definire “giudaico-cristiana” una civiltà nella quale i cristiani hanno sempre perseguitato i “giudei”, è un ossimoro funzionale ad un gioco di contrapposizioni nei confronti di un nuovo spettro. Il ragionamento di Paolo Mantellini, come quello di Vittorio Feltri, è un classico “Non sequitur“, in cui una associazione (religione e gerarchia sessuale in un data società) è arbitrariamente rappresentata come un rapporto di causa ed effetto. Rapporto che sarebbe dimostrato da un testo interpretabile solo con estrema circospezione.

Se pure è ipotizzabile un tale rapporto, la causa è scambiata con l’effetto. Per Feltri e Mantellini, fanno testo le affermazioni scritte nel Corano. Vediamo però, quale ne sia la giusta traduzione, che ne esistono di analoghe nel vecchio e nuovo testamento. L’evoluzione successiva, che poi per noi stessi è molto recente, è dipesa da variabili economiche e sociali: il passaggio dalla società contandina alla società industriale, a quella post industriale. Una evoluzione per nulla pacifica e lineare: la religione non ci ha  accompagnato, non ha consentito e favorito. Le leggi che abbiamo in materia di divorzio, aborto, diritto di famiglia, violenza sessuale, pari opportunità, ma pure in materia di diritti politici e civili, le abbiamo non perchè la chiesa si è evoluta, ma perchè è stata sconfitta. Sconfitta e non molto rassegnata. Nella chiesa, uomini e donne non sono pari, la chiesa è una delle più antiche e solide monarchie maschiliste della storia umana. Inoltre, anche noi abbiamo situazioni diverse tra città e provincia, tra nord e sud, così come nel mondo islamico c’è differenza tra paese e paese, per esempio tra Marocco e Afghanistan. Noi abbiamo una parte della società retriva e maschilista che oggi scopre i diritti delle donne, sia pure in modo strumentale, proprio grazie al contatto con l’Islam.

Vedo solo una differenza evolutiva almeno negli aspetti più profani delle due religioni, come per esempio il ruolo della donna, il rapporto con la politica, etc. Se vi è differenza teologica essa varrà nel sacro. L’appiattimento in un unicum è il rischio che si corre anche nel considerare in modo separato e contrapposto le due religioni. Per cui si finisce per rappresentarsi due piatti irriducibilmente avversi. Da rompersi sulla testa.

Data la diversa struttura organizzativa delle due religioni, la rappresentazione di un dibattito meno vivace interno all’Islam, mi pare poco credibile. Il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo, ha una dottrina, una chiesa, una gerarchia ecclesiastica, un papa, il dogma dell’infallibilità del papa. L’islam invece è policentrico, non ha una gerarchia verticale, un’autorità centrale. Nell’Islam esiste un pluralismo e una confusione interpretativa anche superiori a quella presente nella “nostra” religione.

Mancanza di clero (da “Islam” su Wikipedia)

Le correnti principali dell’Islam non ammettono né riconoscono clero e tanto meno gerarchie (indirettamente una forma di ambiente clericale esiste però nell’ambito sciita), dal momento che si crede non possa esistere alcun intermediario fra Dio e le Sue creature.

Da non confondere col clero è la categoria degli imam, musulmani che per le loro buone conoscenze liturgiche, sono incaricati dalla maggioranza dei fedeli di condurre nelle moschee la preghiera obbligatoria.

Neppure gli ?ulam?? che si limitano a interpretare il Corano possono essere avvicinati a una forma di clero, anche se, nell’assolvere alla loro funzione, di fatto tendono a riaffermare il ruolo privilegiato che deve svolgere la religione islamica nella società. A un ben delimitato ambito giuridico vanno invece ricondotti i muftì, che sono autorizzati a esprimere pareri astratti nelle diverse fattispecie giuridiche, indicando se una data norma sia o meno coerente con l’impianto giuridico islamico.
Similmente deve dirsi dei qadi. Di nomina governativa, essi eventualmente sono chiamati a giudicare in base alle norme della shari’a all’interno di particolari tribunali (definiti sciaraitici) che un tempo prevalevano nelle società islamiche ma che oggi sono soppiantati dai tribunali statali. Questi ultimi giudicano sulla base di codici, per lo più d’ispirazione occidentale, anche se ispirati alla normativa sciaraitica.
Il fatto di non interfacciarsi col sacro non consente quindi in alcun modo di assimilare le loro figure a quella del sacerdote.

Interpretare il volere di dio (attribuito al cristianesimo) e Interpretare il modo di essere più aderenti possibili alla sua volontà (attribuito all’Islam). sono sostanzialmente la stessa cosa. L’interpretazione non è fine a se stessa, è relativa comunque a come deve agire il credente. Anche nel cristianesimo si sosteneva, e in parte ancora si sostiene, linenarranza della Bibbia. Come pure i testi come quelli qui di seguito potevano e possono essere interpretati solo con estrema circospezione.

Versetti misogini nella Bibbia

Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia.
(Nuovo testamento, San Paolo, 2.12)
Ogni donna impudica sarà calpestata come sterco nella via.
(Antico Testamento, Siracide, 9.10)
La donna perfetta è la corona del marito, ma quella che lo disonora è come carie nelle sue ossa.
(Antico Testamento, Proverbi, 21.4)
“Alla donna disse: Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà.”
(AT, Genesi, 3, 16)
“Se [la donna] non cammina al cenno della tua mano, toglila dalla tua presenza.”
(AT, Siracide 15,26)
“Motivo di sdegno, di rimprovero e di grande disprezzo è una donna che mantiene il proprio uomo”
(Siracide 25,21)
“Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci: una rete il suo cuore, catene le sue braccia. Chi è gradito a Dio la sfugge ma il peccatore ne resta preso.”
(AT Ecclesiaste 7, 26)
“Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore.”
(NT Colossesi 3, 18)
“Ugualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa”.
(Pietro 3,1-9)
“La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”.
(Timoteo I, 2,11-15)
“L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. [… ] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine […]”
(Corinzi 11,3-10)
“Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo. Non dare all’acqua un’uscita né libertà di parlare a una donna malvagia.”
(AT Siracide 25, 24 )
Quando una donna abbia flusso di sangue, cioè il flusso nel suo corpo, la sua immondezza durerà sette giorni; chiunque la toccherà sarà immondo fino alla sera. Ogni giaciglio sul quale si sarà messa a dormire durante la sua immondezza sarà immondo; ogni mobile sul quale si sarà seduta sarà immondo. Chiunque toccherà il suo giaciglio, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. Chi toccherà qualunque mobile sul quale essa si sarà seduta, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell’acqua e sarà immondo fino alla sera. Se l’uomo si trova sul giaciglio o sul mobile mentre essa vi siede, per tale contatto sarà immondo fino alla sera.
(AT, Levitico, 15, 19)
“(….) Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per 7 giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatrè giorni a purificarsi del suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finchè non siano compiuti i giorni della sua purificazione. Ma se partorisce una femmina sarà immonda per due settimane come al tempo delle sue regole; resterà sessantasei giorni a purificarsi del suo sangue”
(Levitico, 12,2.)
Ogni malizia è nulla, di fronte alla malizia di una donna, possa piombarle addosso la sorte del peccatore! Come una salita sabbiosa per i piedi di un vecchio, tale la donna linguacciuta per un uomo pacifico.
(AT, Siracide, 25, 18)
Nessuno gli usi misericordia, nessuno abbia pietà dei suoi orfani. La sua discendenza sia votata allo sterminio, nella generazione che segue sia cancellato il suo nome. L’iniquità dei suoi padri sia ricordata al Signore, il peccato di sua madre non sia mai cancellato.
(AT, Salmo 109, 12)
«Se un uomo trova una fanciulla vergine che non sia fidanzata, l’afferra e pecca con lei * e sono colti in flagrante, l’uomo che ha peccato con lei darà al padre della fanciulla cinquanta sicli d’argento; essa sarà sua moglie, per il fatto che egli l’ha disonorata, e non potrà ripudiarla per tutto il tempo della sua vita.»
(AT Deuteronomio 22, 28)
«mentre [Tamara] gliele dava da mangiare [le frittelle], egli la afferrò e le disse: “Vieni, unisciti a me, sorella mia”. Essa gli rispose: “No, fratello mio, non farmi violenza… Ma egli non volle ascoltarla: fu più forte di lei e la violentò unendosi a lei… Assalonne suo fratello le disse: “Forse Amnòn tuo fratello è stato con te? Per ora taci, sorella mia; è tuo fratello; non disperarti per questa cosa”… Il re Davide [l’unto del Signore] seppe tutte queste cose e ne fu molto irritato, ma non volle urtare il figlio Amnòn, perché aveva per lui molto affetto; era infatti il suo primogenito.»
(AT 2-Samuele 13,11)
«Il Signore ti colpirà di delirio, di cecità e di pazzia,… Ti fidanzerai con una donna, un altro la praticherà *; costruirai una casa, ma non vi abiterai; pianterai una vigna e non ne potrai cogliere i primi frutti.»
(AT Deuteronomio 28, 28)
«Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro *. Essi la presero e abusarono di lei tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell’alba…»
(AT Giudici 19, 25)
«Essi scoprirono la sua nudità, presero i suoi figli e le sue figlie e la uccisero di spada. Divenne così come un monito fra le donne, per la condanna esemplare
che essi avevano eseguita su di lei.»
(AT Ezechiele 23, 10)
Così dice il Signore (a Davide): Ecco io sto per suscitare contro di te la sventura…; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un tuo parente stretto, che si unirà a loro alla luce di questo sole;
(AT II-Samuele 12,11)
Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato;
(AT Deuteronomio 25,5)

La tela comunista e il proiettore stalinista

Nonostante quel che può far pensare questo simpatico fotoritocco, non penso affatto che Paolo Ferrero sia uno stalinista. Anzi penso proprio il contrario. Tuttavia, alcune componenti del Prc lo sono, come pure del Pdci, e questo getta un ombra su tutto il Partito e su una Federazione della sinistra di fatto ridotta all’unità dei comunisti.

Il socialismo non nega il liberalismo, lo supera e lo comprende. Ai diritti civili e ai diritti politici aggiunge i diritti sociali. Aggiunge, non sostituisce. Intendo il socialismo come democrazia integrale. La sostanza della Rifondazione Comunista, di una ipotesi di rilancio di una sinistra anticapitalista, dovrebbe consistere nella conciliazione dei principi di uguaglianza e libertà e di una cesura con lo stalinismo, una cesura simile a quella attuata da Lenin nei confronti della socialdemocrazia, dopo il voto dei crediti di guerra. Questa esigenza è avvertita solo in parte, perchè da un lato il suo compimento è dato per scontato a partire dalla diversità dei comunisti italiani e dello strappo di Berlinguer che risale ormai al 1981 e al fatto che almeno due, tre generazioni di comunisti sono cresciute nel rifiuto dell’esperienza sovietica, dall’altro non esistono formazioni staliniste di rilevanza paragonabile a quella dei partiti socialdemocratici, tale per cui ci si senta in dovere di lottare per un ribaltamento dei rapporti di forza, imperativo invece esistente nei confronti della sinistra moderata.

Tuttavia, esistono piccole componenti “tardo staliniste”, dentro e fuori i partiti della sinistra radicale, che si identificano nella esperienza dei regimi del cosiddetto “socialismo reale” nei quali il principio di uguaglianza implicava la negazione della democrazia, e se necessario, persino dei diritti umani, che oggi si sentono attratta da qualsiasi cosa ricordi vagamente quella roba lì. In nome di una vaga e indeterminata “politica di classe” qualsiasi regime in odor di populismo e antiamericanismo va bene. Secondo queste componenti, il soggetto (rivoluzionario) è uno stato o un insieme di stati. E nell’ambito dello stato, una organizzazione, un partito. Venendo a mancare l’Urss, individuano di continuo i surrogati all’esterno del campo di alleanze occidentali. Bush gli indica l’asse del male, gli stati canaglia e in loro rifiorisce la speranza. Sono fissati con la geopolitica e con il primato del partito, mentre disprezzano i popoli, i movimenti, i soggetti sociali: mera massa di manovra. Quando li manovriamo noi, sono proletari, quando li manovra il nemico, sono piccolo-medio-alto borghesi. In base ad una doppia morale tipica dei manicheismi paranoici, insorgono per il colpo di stato in Honduras, ma tifano per la repressione dell’Onda verde in Iran.

Si tratta di minoranze irrilevanti, è vero, ma intanto convivono con noi e grazie al peso della storia non hanno difficoltà a farsi indentificare e a gettare un ombra su tutto il movimento. Se quella è la tua storia e quelli i tuoi compagni, forse anche tu non sei molto diverso. Purtroppo, gli agitatori di un vessillo, i più appassionati ad una ossessione, gli sventatori di complotti, nei loro contesti di socializzazione, sono quelli che si fanno notare di più, come solitamente succede per le persone dotate di un brutto carattere. Possiamo vendere il pane ad un euro e dimostrare in alcuni mercati che il carovita non è un destino ineluttabile e può essere combattuto e così conquistare l’apprezzamento di molte persone povere e meno povere, in lotta quotidiana nel tentativo di unire il pranzo con la cena, alcuni tra loro sono immigrati, molti i romeni che del comunismo non hanno un buon ricordo. Se uno dei nostri “venditori” si mette a recitare loro l’elogio di Ceaucescu, qual’è il saldo tra vantaggio e svantaggio?

(7 luglio 2009)

Liberazione, una vertenza sindacale (e politica)

I giornalisti di Liberazione – testata giornalistica concessa nel 1991 dal partito radicale alla Mrc S.p.a. di cui il Prc è l’unico azionista – hanno fatto due giorni di sciopero per protestare contro la sospensione degli stipendi, decisa arbitrariamente dal partito editore, per risanare e rilanciare il giornale. Allo sciopero, il segretario Paolo Ferrero e il direttore Dino Greco hanno reagito accusando i giornalisti di slealtà: boicottano il rilancio del giornale, perchè non credono nel progetto politico del partito.

Vero o falso, l’accusa ha un suo fondamento, perchè la gran parte dei giornalisti in sciopero sono (ex?) sostenitori della mozione di Nichi Vendola, rimasti al loro posto anche dopo la scissione di Sinistra e libertà e il dimissionamento di Piero Sansonetti. Le scissioni, per vari motivi anche materiali, non sempre riescono perfettamente. Quando finì il PCI vi erano funzionari che rimasero provvisoriamente nel Pds, pur sentendosi idealmente vicini a Rifondazione, perchè partecipare alla scissione avrebbe significato ritrovarsi senza lavoro. In una situazione analoga si trovano oggi alcuni vendoliani rimasti nel Prc di Ferrero e Grassi. Questo però, nulla toglie all’argomento sindacale: i lavoratori sono tutelati da un contratto, non ricevono lo stipendio, rischiano il licenziamento, e non possono mettere becco nel progetto editoriale, dare il loro contributo di idee professionali per il rilancio del giornale. Perchè è proprio sulle idee che c’è contrasto: organo di partito o quotidiano politico ben oltre il partito? L’ultimo congresso (Chianciano 2008) aveva come oggetto del contendere proprio la sorte del partito.

E’ una situazione intricata. I giornalisti sono lavoratori la cui sorte non può essere appesa al filo delle svolte e controsvolte congressuali. I contratti servono appunto per tutelare la parte più debole dalle oscillazioni e dalle crisi (di ogni tipo). E però il giornale di partito non è un giornale di liberi pensatori. Nessun partito ha motivo di tenere in vita, un giornale che non rappresenti la sua linea. E se un partito vuole proprio avere un giornale, ha poco senso che lo faccia con giornalisti che non condividono il suo progetto. Il partito non è un editore puro. Realizza e sostiene un giornale per avere un suo organo politico. E’ un lavoro militante che si fa giornalistico: la sua autonomia è limitata al modo giornalistico, non alla linea, al progetto. Quelli, inevitabilmente, li decide il partito. Proprio per ciò, per me il giornale di partito è una brutta cosa. Se il mio interesse è principalmente giornalistico, non posso scrivere su un giornale di partito. E infatti, raramente lo leggo.

Sulla vertenza sindacale in corso mi sento solidale con chi non riceve lo stipendio e rischia di perdere il lavoro. Bisogna pagare gli stipendi, tutelare i posti di lavoro, e se non si è in grado, ricorrere alla cassa integrazione ed eventualmente pagare la liquidazione a chi può o vuole andarsene. Le ragioni dei lavoratori tuttavia non elevano il motivo occupazionale a teoria di indipendenza giornalistica (in un giornale di partito). Sulla questione politica c’è una contraddizione, poichè la redazione di un giornale di partito non può che essere composta da persone che si riconoscono se non nella linea almeno nel progetto del partito. Il giornale di partito può essere l’avanguardia, solo se la Direzione del partito accetta di fare la retroguardia.

L’Ordinamento della professione e lo Statuto dei lavoratori tutelano i lavoratori garantiti da un contratto, ma non impediscano la separazione di persone che hanno tra loro idee politiche diverse e ben poca stima e fiducia reciproca, purchè la separazione non sia imposta e regolata unilateralmente. Nel caso, per assurdo, Liberazione avrebbe l’obbligo di tenersi anche un redattore con le impregiudicabili idee di Vittorio Feltri. Un partito non è un’azienda come le altre. Posso lavorare in una fabbrica di automobili, anche se penso che le automobili siano una schifezza. Ma non posso lavorare in un partito (nelle sue strutture, nei suoi organi) se penso che il suo progetto politico sia una schifezza. E’ possibile per legge, perchè l’articolo 18 non vale per i partiti, ma vale per gli organi di partito, una contraddizione che può essere (come effettivamente è) causa di paralisi e conflitti mai ricomponibili. Contraddizioni che non sarebbe esaustivo leggere solo come vertenze sindacali. Difatti qui, alla vertenza sindacale si sovrappone anche la vertenza politica (tra vendoliani e ferreriani). Il Manifesto, che è parte terza e che avrebbe pure interesse alla proposta di privilegiare il web, per non avere più un concorrente cartaceo, la vertenza la racconta proprio così.

Le idee dei giornalisti di Liberazione sono state le idee di tutto il partito, e forse sono le idee di tutta la ex sinistra arcobaleno. Ma vi è stata una rottura, dopo la sconfitta alle politiche del 2008 su questo punto: se rilanciare Rifondazione comunista o se trasformare il cartello della Sinistra arcobaleno in un nuovo partito, in cui far confluire lo stesso Prc. Magari una rottura assurda, ma è andata così. Ora, una parte degli aspiranti “arcobaleno” è rimasta nel giornale della nuova (o vecchia) Rifondazione. L’essere in disaccordo o all’opposizione del segretario non implica il doversi separare. Dovrebbe implicarlo, il non riconoscersi più nel partito, il non riconoscere più il partito come il proprio. I giornalisti anti-ortodossi – un po’ anacronistici nella loro stesso essere eretici – hanno tutta la mia simpatia, ma la Pravda ormai è solo un giornale tra gli altri, e come tale ha diritto di esistere anche lei.

P.s. All’origine della crisi di Liberazione vi sono anche e soprattutto l’esclusione del Prc dal parlamento e i tagli di Tremonti all’editoria, in una situazione in cui il monopolio della pubblicità è della Televisione – Berlusconi con il suo noto e “digerito” conflitto d’interessi si oppone a fissare qualsiasi tetto – e la carta stampata viene risarcita con il finanziamento pubblico, la cui gran parte viene però assorbita dai grandi giornali, espressioni di grandi imprese.

Articoli e comunicati
Liberazione al buio
Comunicato della M.R.C. S.p.A.
Difendiamo Liberazione, bene comune
Verbale d’incontro M.R.C. e giornalisti di Liberazione
Cdr e Assemblea dei giornalisti rispondono a Dino Greco
Liberazione, la questione non è sindacale, è politica
La solidarietà e il sostegno del Prc al direttore di Liberazione
Fort Alamo
La Fnsi e l’Assostampa romana rinnovano il sostegno ai giornalisti di “Liberazione”
Cosa succede a Liberazione

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Grazie a Facebook questa mattina ho comprato Liberazione. Questo mi chiarisce a cosa può servire Facebook. Quello che continuo a non capire è a cosa serva Liberazione. Ho letto l’editoriale del nuovo direttore, Dino Greco. Sembra una persona sobria e sono d’accordo con quello che ha scritto. Come successore di Sansonetti ha gioco facile. Tuttavia, questo giornale è ben poca cosa, costa un sacco di soldi (all’anno tre milioni di euro?) e non lo legge quasi nessuno. Ha solo cinquemila lettori. Se anche li raddoppiasse, resterebbe una dimensione insignificante, magari sufficiente a “sabotare” il manifesto. Ma tra la qualità dei due giornali non c’è paragone. Comprendo il bisogno di autorappresentarsi, di dare un orientamento a funzionari, militanti e simpatizzanti, ma per questo un blog, una pubblicazione online, sarebbero sufficienti – magari con una ragionata rassegna stampa italiana ed estera – anzi, sarebbero anche più utili, sia come informazione, sia come principio organizzativo: un blog che commentasse quasi in tempo reale i principali avvenimenti e permettesse la partecipazione, la formazione di una comunità virtuale. Persino il New York Times medita di trasferirsi solo in rete. Su carta, continua a valere l’approfondimento, la lettura impegnata. Una rivista politico culturale la comprerei volentieri, anche senza l’avviso di Facebook.
 
(20 gennaio 2009)

Politicamente corretto

Il politicamente corretto viene spesso usato come un punching ball da chiunque dica di voler dichiarare verità scomode senza cautele di sorta. Esiste persino un libro di Gianni Minà titolato nel suo contrario: “Politicamente scorretto“. Un libro che, nel suo frontespizio, dichiara di voler far conoscere notizie considerate scabrose e analizzarle secondo dati certi, contro una visione del mondo imposta attraverso i media dai poteri politici ed economici (…) un esercizio di controinformazione sugli avvenimenti più diversi e controversi del nostro tempo: dall’incontro con il subcomandante Marcos alla cronaca della repressione messa in atto da un segmento delle nostre forze dell’ordine al G8 di Genova nel 2001; dalle ipotesi sui meccanismi che hanno favorito gli attentati dell’11 settembre, alle rivelazioni del diplomatico Usa Wayne Smith sulla ripresa delle relazioni con Cuba che il presidente Jimmy Carter stava per firmare se non avesse perso le elezioni contro Ronald Reagan. Osservazioni spesso provocatorie, ma comprovate e mai smentite, che costituiscono uno strumento per comporre un quadro lucido del nostro tempo.
Perfetto. Ma tutto questo cosa c’entra con il titolo del libro? Il politicamente corretto, non vieta di dire la verità, anche se scomoda al potere, nè vieta di dire pane al pane, vino al vino. Vieta di dire “negro al negro, frocio al frocio”. Ovvero di usare un linguaggio dispregiativo nei confronti di categorie tradizionalmente svantaggiate e discrminate.
Pur non essendo una questione di sintassi e grammatica, mi si obietta in una discussione che è preferibile dire la cosa giusta con le parole sbagliate, piuttosto che la cosa sbagliata con le parole giuste. Ma è tecnicamente possibile dire le cose giuste con le parole sbagliate? Certo che si, mi si risponde. Ad esempio: “Negri e bianchi sono uguali” è una cosa giusta detta con parole sbagliate. “Il sionismo è un’idologia razzista” è invece una cosa sbagliata detta con parole giuste.
Tuttavia, noi non siamo “negri”. Per noi è facile archiviarla così. Se invece il termine dispregiativo toccasse noi, il messaggio ci apparirebbe quantomeno divergente. Eppure i neri, quando vogliono, si chiamano “negri” tra loro. Ma questo non vuol dire gradiscano essere chiamati così da un bianco.
Inoltre, le due frasi non sono paragonabili. Nella prima “negri” è un sostantivo (chi lo pronuncia presume sia universalmente condiviso), nella seconda “razzista” è un aggettivo (chi lo pronuncia sa che è solo il suo punto di vista). Nel primo caso, poi, oggetto della definizione dispregiativa è un gruppo umano, che non ha senso identificare con caratteristiche positive o negative. Nel secondo, una ideologia, che invece può essere giudicata o definita in modo positivo o negativo.
Anche razzista può essere sostantivo, ma in quanto “fautore del razzismo”, nel caso non vi sarebbe discordia tra il mittente e il ricevente la definizione. Es. un conto è dire “comunisti” riferendosi ai militanti del partito comunista, un altro è dire “comunisti” riferendosi agli oppositori, ai magistrati, ai giornalisti, ai sindacalisti, etc. Nel primo caso è un sostantivo, nel secondo un aggettivo.
Riguardo la valenza dell’offesa (se razzista o non razzista), dipende da ciò che viene effettivamente offeso. Posso offenderti per qualcosa che ti è proprio e di cui tu sei responsabile, un fatto che hai commesso, una cosa che hai pensato, e da cui puoi potenzialmente emendarti. Posso offenderti per qualcosa che ti è proprio (innato) e di cui tu non sei responsabile e da cui non puoi emendarti. Il colore della tua pelle, dei tuoi capelli, dei tuoi occhi, il tuo orientamento sessuale, la tua etnia, una tua caratteristica fisica. Sei nataocosì e puoi morire soltanto così.
Il “politicamente corretto” è il rifiuto di questo secondo tipo di offesa. E’ il definire l’altro rispettando la sua autodefinizione. Anche se in Italia (non so altrove), il politicamente corretto è stato inteso nel senso di non parlar mai male del presidente della repubblica o del papa.
Non si tratta tanto di essere duri o morbidi, quanto di parlare in modo circostanziato, il più possibile preciso, in riferimento a fatti e soggetti: dire chi ha fatto cosa. E poi dirne bene o dirne male. Se si usa un linguaggio generico e aggressivo nei confronti di appartenenze nazionali o religiose, ben che vada si è a rischio di fraintendimento. L’immunità da razzismo, antisemitismo, islamofobia, sessismo, omofobia, non è scontata per nessuno.

Dei panda e dei diritti

La promozione o la tutela dei diritti viene talvolta confusa con la tutela dei panda e i promotori con i tutori. I panda, per essere salvati dall’estinzione, sono riprodotti in cattività e costretti a vivere in riserve in cui viene preservato il loro habitat naturale. Non gli abbiamo chiesto cosa ne pensano. Lo facciamo noi per loro, per il loro bene. E probabilmente abbiamo ragione. Ma non è sempre e solo questo il modo di tutelare una categoria.

Si può agire per creare tutte le condizioni giuridiche, sociali e culturali, affinchè ogni persona possa autodeterminarsi e tutelarsi, oppure si può agire per imporre limiti, obblighi e divieti a individui o gruppi, indicati come potenziali vittime e ritenuti incapaci di tutelarsi da soli. Come si fa con i bambini e con i minori.

Le quote rosa rientrano nel primo modo: comportano un obbligo e relative sanzioni per le istituzioni, per le liste elettorali, a tutela della rappresentanza femminile, la cui quota fissa un limite al pavimento, non al soffitto. Non comportano invece nessun obbligo e nessuna sanzione per le donne, nel caso decidano di non candidarsi.

Il principio è perciò diverso da quello che vuole ad esempio vietare alle donne di indossare il burqa o il niqab, per tutelarle da un marito o un iman oppressore. E’ diverso dare e garantire una opportunità ovvero sospendere la volontà altrui, per proteggere il bene altrui, un bene predeterminato dal tutore.

I due principi, funzionano diversamente: 1) Riconosco un soggetto più debole (nei diritti e nei poteri). Quindi, gli dò più diritti e più poteri (di cui lui/lei ne fa quello che vuole). Es: conferisco il diritto di voto e poi l’elettore decide se andare a votare o astenersi. 2) Riconosco un soggetto più debole (per sua inferiorità strutturale). Quindi, gli dò obblighi e divieti (per cui lui/lei fa quello che dico io, che so qual è il suo bene). Es. non permetto al bambino di fare sesso con l’adulto, neanche se consenziente, poichè lo ritengo inconsapevole.

Nelle discussioni su questi argomenti invece, ricorre continuamente questa confusione, per cui in modo esplicito o implicito, il paternalismo tutore viene indebitamente esteso al primo principio o altrettanto indebitamente non viene riconosciuto nel secondo.

Sinistra a fianco di Israele?

Sarebbe interessante capire a quali organizzazioni, pubblicazioni, autori, personalità politiche, Alan Krinsky attribuisce la demonizzazione di Israele. Parlare di sinistra, è troppo generico. In linea di principio, non credo che le persone di sinistra dovrebbero essere favorevoli o contrarie ad uno stato in quanto tale. Il giudizio non può che dipendere di volta in volta dalla politica dei governi. E quando uno stato è retto da un governo di destra, naturalmente non è sostenuto dall’opinione pubblica di sinistra.

Tutto l’articolo di Alan Krinsky, rimuove una questione fondamentale nel rapporto tra la Sinistra e Israele: la questione palestinese. Cioè, l’esistenza di oltre tre milioni di persone a cui non è concessa nè la possibilità di autodeterminarsi in un proprio stato, nè la cittadinanza israeliana, determinando così un apartheid di fatto. D’accordo, non è la cosa più grave del mondo, nè della storia dell’umanità, ma proprio perchè Israele è meglio dei suoi vicini, l’unica democrazia del Medio Oriente, si tratta di una pesante contraddizione. Nel dibattito pubblico, la contraddizione incide di più della cattiva coerenza.

La schiavitù era un istituto diffuso in tutte le civiltà del mondo antico, in tutte le città stato dell’antica Grecia. Ma nella narrazione storica, l’esistenza degli schiavi è principalmente ricordata in riferimento ad una città. Ogni volta che si parla di quella città, non si omette mai di dire che aveva gli schiavi. Non è Sparta, è Atene.

Proviamo a considerare che esistono anche opinioni diverse su cosa voglia dire sostenere Israele. Coloro che in passato sosteneva acriticamente l’Urss, hanno fatto un buon servizio alla causa del socialismo?  Poi, ci sono persone che hanno una migliore predisposizione a identificarsi in uno stato, in un partito, in una chiesa, in una organizzazione, e altre che si sentono un po’ soffocate da questo tipo di identificazioni e perferiscono soltanto riconoscersi in alcuni principi. Altri ancora, condividendo lo stesso tipo di identificazione, ma identificandosi negli opposti, amano ritrovarsi insieme per giocare delle belle partite o delle guerre simulate.

Secondo me, in questo genere di discussioni c’è un eccesso di passione e di irrazionalità, tale da richiedere uno sforzo di distacco e di analisi critica. Un imperativo dovrebbe essere quello di identificare bene i soggetti di cui si parla e i loro comportamenti. Persone, gruppi, organizzazioni, istituzioni. Dire chi ha fatto cosa. Diversamente si agitano lenzuola, in un mondo in cui si crede ai fantasmi.

Berlusconi e Minzolini in festa

Fa un certo effetto vedere l’espressione gaudente del direttore del Tg1 corrispondere l’espressione altrettanto gaudente del presidente del consiglio, alla festa di compleanno del ministro Gianfranco Rotondi, poco dopo o poco prima aver letto un editoriale che plaude all’espulsione di Gianfranco Fini dal Pdl. Un effetto materializzante. Privo di rivestimenti. Augusto Minzolini è noto, almeno nella pubblicistica dei suoi detrattori, come il più serio e determinato competitore di Emilio Fede. Persuasione evidentemente condivisa da un parte dei telespettatori, a giudicare dalle flessioni degli indici di ascolto del Tg1, il meno seguito nella storia di quel telegiornale.

Evoluzioni

«Ad urne chiuse voglio spiegare a voi telespettatori perché il Tg1, malgrado le polemiche, ha avuto una posizione prudente sull’ultimo gossip o pettegolezzo del momento: le famose cene, feste o chiamatele come vi pare, nelle dimore private di Silvio Berlusconi a palazzo Grazioli o Villa Certosa. Il motivo è semplice: dentro questa storia piena di allusioni, testimoni più o meno attendibili e rancori personali non c’è ancora una notizia certa e tantomeno un’ipotesi di reato che coinvolga il premier e i suoi collaboratori.
Accade che semplici ipotesi investigative e chiacchericci si trasformino in notizie da prima pagina nella realtà virtuale dei media, o per strumentalizzazioni politiche o per interessi economici. E’ avvenuto in passato, come ricorderete, quando si tentò di colpire il presidente del consiglio di allora, Romano Prodi, strumentalizzando la foto che ritraeva un suo collaboratore in una situazione definita “scabrosa”. E’ accaduto più volte in queste settimane in cui è stata messa sotto i riflettori la vita privata del premier in nome di un improvviso moralismo: abbiamo visto addirittura celebri mangiapreti vestire i panni di novelli Savonarola.
Queste strumentalizzazioni, questi processi mediatici, non hanno nulla a che vedere con l’informazione del servizio pubblico -assicura Minzolini- Nella settimana in cui gli Stati Uniti hanno scelto le nuove regole per proteggere il risparmio nel mondo, mentre esplodeva il caso Iran, e alla vigilia del G8, sarebbe stato incomprensibile privilegiare polemiche sul gossip nazionale solo per scimmiottare qualche quotidiano o rotocalco. Questa è la linea editoriale del Tg1 che vi ho promesso, cari telespettatori, fin dal primo giorno. E che continuerò a garantirvi».

(Augusto Minzolini, Tg1, 21 giugno 2009)

“Le smentite a ripetizione rivelano solo che abbiamo una classe politica nuova che non ha ancora assimilato il fatto che un politico è un uomo pubblico in ogni momento della sua giornata e che deve comportarsi e parlare come tale. […] Quattro anni fa, e cioè in tempi non sospetti, scrissi che la nomina di Giampaolo Sodano alla Rai nasceva dai salotti di Gbr, la televisione di Anja Pieroni. Oggi penso che se noi avessimo raccontato di più la vita privata dei leader politici forse non saremmo arrivati a tangentopoli, forse li avremmo costretti a cambiare oppure ad andarsene. Non è stato un buon servizio per il paese il nostro fair play: abbiamo semplicemente peccato di ipocrisia. Di Anja Pieroni sapevamo tutto da sempre e non era solo un personaggio della vita intima di Craxi. La distinzione fra pubblico e privato è manichea: ripeto, un politico deve sapere che ogni aspetto della sua vita è pubblico. Se non accetta questa regola rinunci a fare il politico”

(Augusto Minzolini, Repubblica 29 ottobre 1994)