Inviolabilità del corpo femminile, principio assente nella cultura maschile

Sul Corriere della Sera del 28 dicembre 2018, a commento di un caso di femminicidio, Luisa Muraro interroga la civiltà patriarcale. Chiede come può un onesto tranviere, in una città come Milano, uccidere una giovane donna, sua ospite, che rifiuta di fare sesso con lui. In parte se lo spiega così: la prepotenza maschile non è limitata da un imperativo dotato di efficacia simbolica paragonabile al rispetto della proprietà privata. Oggi non valgono più le norme patriarcali che regolavano l’accesso degli uomini al corpo femminile e facevano da argine negativo. Ma il principio dell’inviolabilità del corpo femminile non si è affermato nella cultura maschile.

Si può obiettare alla filosofa che molti ladri violano la proprietà privata. Ma i ladri, in genere, non sono ritenuti persone rispettabili e integrate, da consegnare alla psicologia o alla psichiatria dopo un furto inaspettato e sorprendente. Si può ancora obiettare che esiste già l’imperativo di non uccidere e che la maggior parte delle vittime sono uomini. Però, le vittime maschili di solito sono uccise da altri uomini, in un contesto di estraneità e criminalità. Alle donne, invece, succede di essere uccise dagli uomini loro parenti, amici e conoscenti, per essersi rifiutate di corrispondere le aspettative maschili.

L’inviolabilità del corpo femminile fraintesa come assoluto

Il principio di inviolabilità del corpo femminile può evocare nella mente di un uomo un assoluto, simile al tabù dell’incesto materno. Il corpo della madre è inviolabile anche se, per assurdo, lo consentisse o lo desiderasse lei stessa. Forse, il tabù dell’incesto è un principio di obbedienza nei confronti del padre, che esige la separazione tra madre e figlio. Se così fosse, il declino dell’autorità paterna potrebbe indebolire l’imperativo di non desiderare la madre. Un imperativo già oggi superato in alcune categorie dell’immaginario e della produzione pornografica. Per quanto sia dannoso il sesso tra consanguinei, non esiste un tabù di forza analoga all’incesto materno nei confronti delle sorelle e delle figlie.

Così come il corpo della madre è inviolabile, indipendentemente dalla volontà di lei, il corpo delle altre donne, con o senza il consenso, è violabile. Ed è violato. O per un fatto anatomico: l’uomo entra nel corpo della donna. O per un fatto culturale: il rapporto sessuale simboleggia i significati di dominio, possesso, sottomissione, del rapporto tra i sessi nella storia e nella società.

Senza una teoria della libertà femminile

L’ onesto tranviere non è un uomo perbene. Le sue modalità di relazione con le donne sono note ai colleghi di lavoro. Con essi era solito vantarsi delle sue prodezze e da una collega era stato pure segnalato per stalking. Evidentemente non ha incontrato una disapprovazione sociale sufficiente. Come invece l’avrebbe incontrata un ladro che si vantasse di rubare. La vittima, inoltre, aveva segnalato alle forze dell’ordine i comportamenti molesti dell’uomo. Ma la polizia, in mancanza di una formale denuncia, non si è sentita in dovere di prevenire un probabile comportamento delittuoso. Come invece sarebbe accaduto nei confronti di un sospetto criminale di altro tipo.

Alla mancata affermazione del principio dell’inviolabilità del corpo femminile, Luisa Muraro aggiunge che non si è formata, nella nostra civiltà, una teoria della libertà femminile. Se non quella dei diritti degli uomini estesi alle donne, con esiti insensati come il diritto all’aborto o ambigui come il diritto a prostituirsi. Tra le conseguenze del deficit teorico sulla libertà femminile ce n’è uno che voglio segnalare e riguarda la responsabilità collettività e istituzionale. Se assunta a tutela dell’ individuo è doverosa. Se assunta a tutela delle donne rischia di essere vissuta come paternalistica o come una limitazione della stessa libertà femminile. Con la scusa di evitare questo rischio, la collettività e le istituzioni spesso praticano e giustificano la propria colpevole negligenza.

Bettino Craxi. Cosa significa riabilitare l’ultimo leader del PSI?

A periodi, si discute della riabilitazione di Bettino Craxi. Succede in questi giorni, a vent’anni dalla morte e in occasione del film Hammamet di Gianni Amelio. Ma cosa significa riabilitare l’ultimo leader del Partito socialista italiano?

Egli fu condannato, nel 1996, per corruzione e nel 1999, per finanziamento illecito. Per altri reati simili fu assolto o prescritto. Nel 1994, persa l’immunità parlamentare e prima che gli venisse ritirato il passaporto, si trasferì in Tunisia ad Hammamet, dove rimase fino alla morte, nel 2000. Credo, dunque, di poter escludere che la riabilitazione abbia un significato innocentista.

Può significare che la biografia di Bettino Craxi non si riduce ad una storia giudiziaria. Comprende anzitutto quella del leader di partito capo di governo, il primo presidente del consiglio socialista, con una sua ideologia e un suo disegno politico. Fare del PSI la forza egemone della sinistra italiana, così come la socialdemocrazia lo era nel resto dell’Europa occidentale. Un obiettivo mirato a sbloccare la democrazia in Italia e realizzare l’alternanza tra progressisti e conservatori, al pari degli altri paesi democratici.

A giudizio dei suoi estimatori, anche i reati da lui commessi erano in funzione di questo disegno. Ovvero, i socialisti non rubavano per se stessi, ma per il partito, per la loro causa politica, in competizione con due forti concorrenti, il PCI e la DC, finanziati anch’essi in modo illecito, secondo Craxi. Possiamo discutere quanto ciò fosse vero, e se sia più grave rubare per sé o per il partito. Per adesso, limitiamoci a dire che le tangenti sono, in ogni caso, risorse sottratte alla collettività, un danno per l’erario pubblico.

La causa politica di Bettino Craxi

Riguardo, la bontà della causa politica craxiana, c’è da discutere quale sia stato il vantaggio per il Partito socialista e per il paese. Il PSI si è estinto insieme al suo leader. Il paese ha dovuto affrontare i sacrifici del risanamento del debito pubblico e della corruzione, per poter rimanere in Europa.

Il fatto è che l’obiettivo politico di Bettino Craxi, il primato socialista nella sinistra italiana, fu ideologico e organizzativo, senza avere una effettiva necessità pratica, perché il PCI si trasformava sempre più in un partito socialdemocratico. Così, tale obiettivo finiva per sostanziarsi nell’anticomunismo e in politiche anti-operaie. Craxi è da taluni valorizzato come anticipatore di Tony Blair. Ma lo stesso leader britannico è motivo di divisione.

La questione è qui data dal confine tra adattamento e conversione. L’adattamento non cambia i motivi di fondo del socialismo, modifica i mezzi per conseguirli. La conversione invece cambia i fini. Nel caso della socialdemocrazie, finisce per assumere quelli del liberalismo.

Il rapporto tra capo e partito

Tra i mezzi, uno in particolare è diventato fine: la centralità del leader del partito, con la sua proiezione nel progetto di riforma presidenziale, per scavalcare e vincere il confronto con i due partiti di massa, superare il partito inteso come corpo intermedio tra popolo e istituzioni. Qui, si può vedere un’anticipazione del populismo e una pratica di gestione che ha impedito al Partito socialista di sopravvivere al suo leader. Di nuovo questa leadership è stata più formale che sostanziale. Più una forma di potere personale, che non il potere di guidare la società. Infatti, a Craxi è attribuita la grande capacità di capire e interpretare i cambiamenti, la modernizzazione, ma questa capacità ha scontato la rinuncia a educare e dirigere la società, una vocazione più prossima a quella di Aldo Moro o Enrico Berlinguer.

Quindi, se riabilitare Bettino Craxi vuol dire stigmatizzare il lancio di monetine davanti all’Hotel Raphael, riconoscere una storia politica insieme a quella giudiziaria, che pure ha il suo peso, posso sentirmi d’accordo. Peraltro, la riabilitazione è favorita dal confronto con i successori della classe politica di governo. Se significa invece condividere quella storia politica, assumerla come fonte d’ispirazione, inserire Bettino Craxi nel Pantheon della sinistra, allora sono in disaccordo, perché i fini perseguiti e i risultati ottenuti sono stati molto negativi.

Festival di Sanremo 2020. Il sessismo non fa (ancora) un passo indietro

Sembrava un Festival di Sanremo ben orientato. Con l’ invito a Rula Jebreal, una giornalista internazionale, a parlare contro la violenza sulle donne. Peraltro, un Festival con molte presenze femminili. Presentate però con varie gaffe. Il direttore artistico, Amadeus, mostra di saperle apprezzare solo perché belle, bellissime, sexy. Addirittura, valorizza Francesca Sofia Novello, perché fidanzata con Valentino Rossi, un grande uomo, e per la sua capacità di stare un passo indietro rispetto a lui. Il conduttore si è difeso dalle accuse di sessismo. Ha dichiarato di adorare le donne. Tuttavia, molti adorano i cani, i gatti, i canarini, i criceti, i pesci rossi. L’adorazione non è un sentimento egualitario. Non implica necessariamente riconoscimento e rispetto.

Poi si è aggiunta la partecipazione di un cantante rapper di nome Junior Cally, autore di testi misogini e violenti, in particolare la canzone Strega. La canzone che canterà sul palco dell’Ariston sarà pulita, ma promuovere un cantante al Festival di Sanremo significa promuovere tutta la sua produzione. Una protesta quasi unanime chiede tuttora di escluderlo dal Festival. In questo senso si sono espressi il presidente della Rai, alcuni segretari di partito, il presidente della Regione Liguria, un gruppo di donne parlamentari e tante persone comuni sui social media. C’è anche una petizione che ha raccolto 50 mila firme. La contestazione diffusa è soprattutto femminile. Ma Amadeus è contrario e pare avere dalla sua il regolamento del Festival, che non prevede di poter escludere un cantante già in corsa.

Gli argomenti in difesa della partecipazione del rapper al Festival di Sanremo 2020

A sostegno del cantante, non mancano i difensori con la loro rassegna di argomenti, tipo questi.

  • La censura è sbagliata, mina la libertà d’espressione.
  • La violenza è un codice del rap e dell’hip hop, ma è solo una finzione artistica, non provoca violenza nella realtà, ed è interpretata anche da alcune donne.
  • Esistono produzioni precedenti che hanno interpretato la violenza, magari in forma più soft, non solo nella musica, anche nel cinema, nella televisione, nei libri.
  • Bisogna tollerare la trasgressione della morale (dominante), la ribellione al politically correct, specie se la provocazione è di origine umile e proletaria.

Non so dire con certezza se sul piano tattico, chiedere l’esclusione del cantante dal Festival di Sanremo sia la mossa più giusta, utile ed efficace. Mentre una battaglia è in atto, se ne condivido i contenuti di fondo, preferisco non distinguermi. Ad ogni modo, trovo che gli argomenti contrari non siano ragioni valide, ma solo delle scuse.

Non si tratta di censura, ma di selezione. Il cantante può fare i suoi concerti e vendere le sue canzoni. Se partecipa lui al Festival di Sanremo, esclude un altro. Perché preferire lui, dati i suoi testi e le sue giustificazioni? Dice che il suo pensiero è contro la violenza, mentre la sua arte racconta la realtà. Tuttavia, l’arte esprime la verità soggettiva dell’autore, il suo inconscio, oppure il suo opportunismo se vuole solo dare sfogo alle pulsioni del pubblico.

Maschi che vogliono essere e restare “fatti così”

Che il rap sia fatto così, con un codice violento, pare la declinazione particolare del principio generale: gli uomini sono fatti così. Ciò esprime solo il rifiuto di cambiare, non l’impossibilità di farlo. Il movimento Non una di meno ha scritto, due anni fa, una lettera aperta agli artisti rap, perché aprano una riflessione su di sé, sul sessismo dei loro testi, recitati senza alcun filtro critico.

Il punto non è genericamente la violenza, il cattivo gusto, la volgarità, il turpiloquio, ma precisamente la violenza maschile contro le donne. È una finzione? Alimenta, riproduce, rinforza un immaginario, una condizione favorevole alla violenza vera, simbolica, psicologica. Se non la provoca in modo deterministico, la normalizza, addirittura pretende di ammantarla di antagonismo. Qualche interpretazione femminile rap non ne cambia il senso. Il rapporto tra i sessi è un rapporto di potere. In un sistema di potere, alcuni degli elementi subordinati, per sopravvivere, per emergere, o per persuasione, assumono e interpretano il codice del gruppo dominante.

I precedenti riguardano anche le possibilità di cambiamento. I film western, per esempio, dalle origini e per molto tempo hanno rappresentato il conflitto tra cowboy bianchi buoni e indiani pellerossa cattivi. A un certo punto, abbiamo preso coscienza di aver commesso un genocidio dei popoli nativi delle Americhe ed abbiamo iniziato a vergognarci di raccontare quella storia in quel modo. Così i pellerossa sono spariti dai film western e quando sono ricomparsi abbiamo voluto rappresentarli in una luce migliore. Perché, quando vogliamo trasgredire o provocare, ancora non ci vergogniamo di usare le donne come punching-ball emotivo? Eppure siamo coscienti degli stupri, dei maltrattamenti familiari, della violenza domestica, delle discriminazioni, dello sfruttamento della prostituzione, dei femminicidi. Cioè, siamo coscienti (forse) noi uomini di esserne responsabili. Come possiamo credere di poter fare la parte degli interpreti neutrali?

Immorali autentici contro la doppia morale?

Il rifiuto della violenza maschile contro le donne, non è ancora propriamente la morale dominante. Siamo nella transizione. Non esiste più il delitto d’onore nel codice penale, ma esiste il delitto passionale, il raptus o qualche altra forma di attenuante nel codice narrativo. Il potere maschile è in declino. Alcuni uomini ne sono contenti, altri indifferenti, altri fanno resistenza. Difendere il diritto di offendere le donne, per libertà, arte, satira, trasgressione, provocazione, o per qualsiasi altro pretesto, esprime questa resistenza, anche se si spaccia per opposizione alla morale corrente o al moralismo.

Un effetto del cambiamento è l’incrinarsi della doppia morale. Quella sintetizzata nel tweet di Matteo Salvini: le donne non le insulti al Festival di Sanremo, le insulti a casa tua. In verità, Junior Cally farà proprio come dice il leader leghista. All’Ariston canterà in modo educato o compatibile, nei suoi concerti canterà la violenza. Alla fine, pure lui aderisce alla doppia morale. Tuttavia, la componente salviniana ipocrita e moralista presente in una parte della contestazione contro il rapper, può dare a lui e ai suoi sostenitori l’impressione di essere dalla parte della ribellione. Rivoluzionario però non è portare l’offesa sessista dappertutto (o farlo credere), ma rispettare le donne ovunque. Se il rispetto non è eccitante, parliamo della nostra sessualità, della sessualità maschile, senza ripararci dietro analisi e interpretazioni che pretendono di essere neutre, oggettive e contestualizzanti. D’altra parte, il moralismo e un certo modo di trasgredire vanno perfettamente insieme. Cosa c’è di più moralista che dare della troia a una donna?

L’inganno violento di Vittoria

È la storia di un inganno violento. Una donna alla guida di un auto si ferma, intrappolata dalla falsa richiesta d’aiuto di un uomo. Uno stupratore seriale pregiudicato, che la violenta per ore e poi la minaccia di morte. Il crimine, accaduto a Vittoria, nel Ragusano, lo racconta Massimo Gramellini sulla prima pagina del Corriere della Sera, il 10 settembre scorso. Il corsivista attacca il garantismo confuso con l’impunità. L’uomo, già condannato nel 2018 per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina, non è mai stato recluso. Ma soprattutto Gramellini difende la vittima dalla possibile accusa di essersela cercata. Se tacitiamo i nostri istinti migliori — scrive — diventiamo simili ai mascalzoni che ci speculano sopra.

In buona parte, la penso anch’io così. Se una donna affronta il rischio di un inganno violento, per soccorrere un uomo che le chiede aiuto, merita solo di essere elogiata. Certo, non biasimata; meno che mai per relativizzare il giudizio sul fraudolento stupratore. Un violento lasciato libero, si dal garantismo, ma in particolare da una perdurante cultura sessista. Una mentalità che subordina la tutela dell’incolumità delle donne ai diritti individuali degli uomini. Di essere difesi, compresi, perdonati, reinseriti, per un reato ancora troppo sottovalutato. Come se continuasse ad essere un’offesa contro la morale morale o una faccenda intima e privata. Una questione che deve riguardare il meno possibile la responsabilità dello stato, specie quella preventiva, nonostante le nuove leggi, i codici e le convenzioni.

Tuttavia, evito di assumere a modello il nobile comportamento della vittima. Non penso di poter avere l’aspettativa che ogni donna si comporti come lei. Forse, neppure un uomo. Non diventiamo simili ai mascalzoni solo perché ci cauteliamo in una situazione ambigua e rischiosa. A distinguerci, più che la generosità, è il senso di responsabilità: verso gli altri, se stessi, le persone care. Se un uomo si sbraccia in mezzo alla strada, per farti frenare, tu alla guida di un’auto puoi passare oltre e avvisare le autorità. Tra il tendere la mano o il lasciarla in tasca, si può scegliere di tenderla, ma infilata in un guanto.

Cancellare Salvini? I suoi decreti, le sue politiche, la sua violenza verbale

La Repubblica del 15 gennaio 2020 ha titolato in prima pagina “Cancellare Salvini”. Il titolo riassume l’ intervista a Graziano Del Rio, che chiede molto giustamente la cancellazione delle politiche e dei decreti sicurezza dell’ex ministro dell’interno. Il quale ha protestato contro la prima pagina di Repubblica, per il titolo contro di lui e per l’incoerenza rispetto al rifiuto del linguaggio d’odio. Il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, si è difeso con l’interpretazione del titolo che — basta leggere l’ intervista al capogruppo del PD — si riferisce ad una politica, non ad una persona.

Secondo me, anche se Matteo Salvini fa la parte del bue che dice cornuto all’asino, questa volta ha ragione. Era facile sintetizzare l’intervista con un titolo appena diverso. Sarebbe bastata una piccola, ma sostanziale modifica. Per esempio: Cancellare i decreti Salvini, cancellare le politiche di Salvini; cancellare il salvinismo. Invece , se usi in modo diretto ed esclusivo una persona come simbolo di una politica e dici che vuoi cancellarla, il tuo messaggio diventa violento. Quantomeno, molto ambiguo. Perché questo errore? Temo che la Repubblica abbia sbagliato in modo consapevole. Perché i media si alimentano della personalizzazione, del conflitto violento e delle polemiche che ne derivano. Una strada già tracciata dai giornali della destra che, evidentemente, induce in tentazione anche un giornale democratico.

In questo, c’è la sottovalutazione della violenza simbolica. Si usano parole pesanti, si urla, si spara a salve, si gioca alla guerra, con l’idea che tanto è tutto finto e non succede niente. Con questo modo di aprire e gestire il conflitto, giornalisti e politici mancano di prendersi sul serio. Può essere un gioco pericoloso, giocato sul crinale. Basta uno squilibrato aggressivo, per trasformare la farsa in una tragedia. Anche senza arrivare a tanto, la violenza nella comunicazione è un fattore inquinante la democrazia. Una mina per la convivenza civile. Alla lunga, è la formazione di una psicologia di guerra. Motivo per cui, la Lega, le destre xenofobe, il populismo, il sovranismo. Il fascismo, vogliamo contrastarli e non emularli.

Utero in affitto, contrario il nuovo governo di sinistra in Spagna

Il governo PSOE-Podemos in Spagna si dichiara femminista. Afferma l’uguaglianza tra i sessi e la lotta alla violenza maschile contro le donne, compreso l’ utero in affitto. P ance a noleggio, nel linguaggio spagnolo. Perché, lo sfruttamento riproduttivo è vietato nella legislazione spagnola, in linea con le raccomandazioni del Parlamento europeo. Gli uteri in affitto minano i diritti delle donne, in particolare delle più vulnerabili, mercificano i loro corpi e le loro funzioni riproduttive. Il programma del nuovo governo di sinistra vuole combattere le aziende che offrono la surrogazione di maternità, pur sapendo che in Spagna è proibita.

Con questa presa di posizione, la sinistra spagnola segue l’esempio della sinistra scandinava. A sua volta, dà l’esempio alla sinistra italiana, che preferisce evitare l’argomento. In Italia, alcuni esponenti democratici e di sinistra, a titolo personale, sono favorevoli alla cosiddetta gestazione per altri (gpa). La sostengono come fosse una bandiera dei diritti civili, secondo il punto di vista maschile della comunità LGBT.

Infatti, Gaypost presenta la posizione del governo spagnolo come l’ultima arretratezza della sinistra sui diritti civili. Per questo sito di blogger, giornalisti, militanti gay, la sinistra, è sempre stata riluttante sui diritti civili. Ma poi ha finito per accettare il suffragio femminile; l’aborto, la legge contro la violenza sessuale; l’integrazione degli omosessuali; le unioni civili. Allo stesso modo accetterà la gpa, è solo questione di tempo.

Controversie

La storia di Gaypost, però, mette insieme cose diverse tra loro e ne omette una molto importante. Questioni lineari come il diritto di voto alle donne o l’inclusione civile degli omosessuali dividono in modo semplice il campo tra conservazione e progresso. Questioni più controverse hanno invece diviso lo stesso movimento femminista.

Per esempio, l’aborto. Possibilità o diritto? Depenalizzazione o legalizzazione? Emancipazione delle donne o deresponsabilizzazione sessuale degli uomini? Poi, l’unità di intenti fu trovata nel decriminalizzare le donne e superare l’aborto, soprattutto clandestino. Non per promuoverlo in quanto contenuto positivo o normale contraccettivo.

Altra controversia, il dilemma tra procedibilità d’ufficio e querela di parte contro la violenza sessuale. In astratto è giusta la procedibilità d’ufficio, e personalmente la condivido, perché il reato ha rilevanza pubblica. Ma nel concreto rischia di esporre le donne, contro la loro volontà, alla vittimizzazione secondaria di ambienti e istituzioni che giudicano le vittime invece degli aguzzini. O di negare la libertà femminile di scegliere secondo il proprio interesse, se perseguire il violentatore, spesso un amico o un parente, il coniuge.

L’abolizione della prostituzione

È significativo che, nella sua escursione storica, il sito gay si sia dimenticato di menzionare la legge Merlin. L’abolizione della prostituzione legalizzata, per opera della senatrice socialista Lina Merlin. Una vicenda che va dall’immediato dopoguerra fino al 1958. Una lotta contro le resistenze degli uomini, compresi molti suoi compagni di partito, che la emarginarono dopo la sua vittoria. Anche qui poteva funzionare lo schema: la sinistra prima ha resistito, poi ha accettato. Poteva, ma molti uomini della comunità LGBT, favorevoli alla legalizzazione della prostituzione, sessuale e riproduttiva, resistono ancora oggi.

L’utero in affitto non è un diritto civile

Per capire quali questioni sono pertinenti con i diritti civili e le libertà delle donne, basta vedere quali sono le lotte del movimento delle donne. Nel femminismo si trovano posizioni possibiliste o contrarie ai divieti e alle criminalizzazioni. Ma non esiste nessuna spinta associativa, o anche solo presa di posizione collettiva, volta a promuovere ed affermare la pratica dell’utero in affitto. Mentre esistono chiare e nette opposizioni, come quella espressa nella petizione femminista che chiede al governo italiano di fare come il governo spagnolo.

Si può ben capire. L’utero in affitto trova il suo fondamento, non nei moderni diritti civili, ma nel diritto patriarcale. Per cui, i figli sono figli genetici: partono dal seme maschile e, attraverso la madre, tornano alla proprietà del padre, da cui prendono il nome. Il corpo materno è solo un luogo di gestazione e di passaggio. La stessa filosofia della surrogazione di maternità. Quindi, una evoluzione della sinistra sull’utero in affitto può esserci sul serio. Nel senso di evolvere dalla presente posizione possibilista e distratta a una più attenta, in ascolto del punto di vista femminista, fino a farsene interprete. Come in Spagna.

Rula Jebreal, giornalista palestinese al Festival di Sanremo

Rula Jebreal è una scrittrice e giornalista palestinese di cittadinanza: italiana e israeliana. Precisamente, è di origine arabo-israeliana e nigeriana. La sua religione è l’Islam d’interpretazione sufi, lei si professa musulmana laica. È stata sposata con un uomo ebreo e ha una figlia cattolica. Le sue relazioni familiari e professionali sono un microcosmo di nazioni e culture. Un simbolo di ciò che aborre la destra xenofoba.

Oltre che in Italia, ha lavorato in Egitto e negli Stati Uniti. Parla in modo fluente quattro lingue: arabo, ebraico, inglese e italiano. Il suo curriculum è di tutto rispetto, tanto da essere una delle sette donne di successo omaggiate da Yvonne Sciò nel suo documentario Seven Women. Capita di vederla protagonista nei talk-show a rappresentare la causa dei diritti umani, della tolleranza e dell’apertura al diverso con uno stile molto assertivo.

L’invito, la censura, il dietrofront della RAI

Il presentatore Amadeus l’ha invitata alla prossima edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Rula Jebreal, per l’occasione, interpreterà un monologo contro la violenza maschile sulle donne, pur se il suo proposito iniziale era intervistare sul tema Michelle Obama. L’indiscrezione sulla presenza di Rula Jebreal a Sanremo ha scatenato una ondata di insulti razzisti e sessisti da parte degli hater xenofobi di destra. In un primo momento, la triste shitstorm è riuscita a indurre i vertici RAI ad escludere la giornalista palestinese dal Festival.

A sua volta, la censura di Rula Jebreal ha provocato una protesta indirizzata contro i dirigenti Rai e contro Matteo Salvini, considerato il censore effettivo. Egli, tuttavia, ha parzialmente smentito ogni coinvolgimento: “ Non mi occupo di vallette o di conduttori, ma i comizi non si fanno sul palco dell’Ariston”. Per Salvini, una donna che va in TV è una valletta per definizione. Dunque, una smentita in linea con il sessismo della shitstorm animata dai suoi ambienti.

La questione ha la sua importanza, perché riguarda la libertà d’espressione nella televisione di stato. L’insostenibilità dell’esclusione di Rula Jebreal è presto detta da Laura Boldrini: Che la Rai dica no a Rula Jebreal è legittimo‬. Ma se poi è vero che “sulla decisione hanno pesato le polemiche scatenate sui social dai sovranisti” allora non ci siamo. Il servizio pubblico deve valutare le competenze di una persona, non piegarsi alla prepotenza di chi la insulta. Quindi, un vertice RAI con l’ad Fabrizio Salini, la direttrice di Raiuno Teresa De Santis e il conduttore Amadeus decide il dietrofront definitivo. Rula Jebreal sarà al Festival di Sanremo.

Rula Jebreal contrapposta a Rita Pavone

Nella contro tempesta volta a sanare la discriminazione della giornalista palestinese non è mancato, tuttavia, uno schizzo fuori luogo. Tra le annunciate ospiti di Sanremo è comparsa anche Rita Pavone, un tempo comunista, ma oggi di simpatie leghiste. Così, qualcuno ha pensato bene di contrapporre la presenza favorita della cantante sovranista all’esclusione discriminante della giornalista democratica. Tuttavia, Rita Pavone è un mostro sacro della canzone italiana e, in quanto tale, ha pieno titolo per essere al Festival di Sanremo. Come se non bastasse, gli antifascisti in rete hanno accostato due foto, per mostrare una brutta vecchia Rita Pavone contro una giovane bella Jula Jebreal. Ovvia, la regia di un immaginario maschile poco evoluto, il cui segno sessista è subito rilevato da Flavia Perina.

Gli uomini di destra praticano una violenza sessista coerente con i loro (dis)valori. Talvolta, espliciti e provocatori, per sollevarsi sull’onda dell’indignazione avversa e poi lasciarsi cadere sulla propria rete di indulgenza ambientale. Gli uomini di sinistra, invece, nella pratica sessista ci cascano inconsapevolmente. Se gli viene fatta notare, si mostrano riluttanti a riconoscerla. Rula Jebreal al Festival di Sanremo, con il suo possibile monologo contro la violenza maschile sulle donne avrà modo di parlare ad entrambi.

Soleimani, il suo omicidio “mirato” un atto illegale

L’ uccisione americana del capo militare dell’Iran, Qasem Soleimani, è stato un atto illegale. Un crimine di guerra, senza dichiarare guerra. Non serviva per prevenire un pericolo imminente; né per rispondere in modo proporzionato ad un torto subito. Il giudizio sulla vittima o sul regime degli ayatollah, può essere negativo e anche molto. Tuttavia, l’eliminazione violenta del comandante iraniano si configura come un omicidio “mirato”. Oltre che indifferente alla sorte delle persone circostanti il bersaglio umano, tanto da provocare sette morti. Una pratica terroristica di giustizia sommaria o di rappresaglia mafiosa, contraria ad ogni principio di legittimità.

Gli Usa sono un paese liberale e democratico, nostro alleato. Tuttavia, ciò non giustifica i loro abusi e crimini. Anzi, ne aggrava il giudizio, per il discredito che ne deriva. Uno stato liberaldemocratico coerente si ispira ai suoi valori nella relazioni internazionali, anche in quelle conflittuali, e agisce per costruire e consolidare un diritto internazionale. Non per violarlo secondo il proprio immediato interesse. O il proprio capriccio. Inoltre, agisce con correttezza: al suo interno, nel rispetto della divisione dei poteri e all’esterno, nel rispetto dei suoi alleati e degli organismi internazionali. L’ordine di uccidere Soleimani, attribuito dal Pentagono al presidente Trump, ha scavalcato la consultazione del congresso americano. Come pure dei suoi alleati, tra cui l’Italia, nonostante essi siano esposti in Iraq a probabili rappresaglie. L’Iraq, il paese teatro dell’assassinio di Soleimani, è uno stato sovrano, ma neppure il governo iracheno è stato consultato o anche solo avvertito.

Perché uccidere Soleimani?

Quale razionalità stia dietro la decisione americana di colpire Qasem Soleimani, per adesso s’ignora. Forse ragioni di politica interna, in relazione all’impeachment e alla campagna elettorale per le prossime elezioni presidenziali; oppure ragioni di geopolitica, in relazione alla volontà americana di contenere l’Iran in Medio Oriente a vantaggio dell’Arabia Saudita, d’impedire il formarsi di una mezzaluna sciita, tra il Golfo Persico e il Mediterraneo, come vagheggia il direttore de La Stampa; o invece nessuna ragione in particolare, bensì improvvisazione e risentimento, magari perché le proteste contro l’ambasciata Usa a Baghdad hanno rievocato la presa in ostaggio 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran nel 1979, o persino un errore involontario come ipotizzano alcuni analisti israeliani, secondo i quali l’obiettivo era solo Abu Mahdi al-Muhandis, capo della milizia di Kata’ib Hezbollah, rimasto anche lui ucciso nell’attentato.

A far dubitare della razionalità americana è la sproporzione del colpo, in rapporto alla dinamica degli eventi più recenti in Iraq. Una serie di attacchi missilistici di bassa intensità contro le basi statunitensi in Iraq imputati a milizie sciite filoiraniane. Un contractor americano rimasto ucciso. La reazione del Pentagono contro le basi di una milizia sciita filoiraniana, con decine di morti. A seguire, le proteste violente contro l’ambasciata americana a Baghdad. Quindi, l’omicidio americano di Soleimani. Eppure precedenti operazioni iraniane contro le petroliere nel Golfo; l’abbattimento di un veicolo aereo statunitense senza pilota; persino un grande attacco contro un impianto petrolifero saudita; sono passate senza una reazione diretta degli americani.

Ci si affida alla razionalità iraniana

Poiché uccidere il capo delle forze armate iraniane obbliga l’Iran a reagire, si può credere che scopo degli Usa sia trascinare l’Iran in una guerra aperta. Eppure gli americani, con l’intercessione dell’ambasciata Svizzera in Iran, avrebbero chiesto alla controparte di contenere la propria risposta. L’Iran ha messo in atto oggi una prima reazione, bombardando alcune basi americane, pare con la preoccupazione di non fare vittime, pur annunciandone ottanta, e il presidente Usa ha commentato: Tutto bene! La lettera di ritiro americana inviata al parlamento iracheno, poi smentita, ma dichiarata autentica, conferma lo stato confusionale dell’amministrazione Trump. Che il colpo americano non si inserisca in una strategia chiara, aumenta la percezione del pericolo in Medio Oriente. Salvo affidarsi alla razionalità iraniana.

Eutanasia o accanimento terapeutico? Meglio le cure palliative

Papa Francesco ha esortato gli operatori sanitari a non cedere ad atti di eutanasia, di suicidio assistito o soppressione della vita, nemmeno quando lo stato della malattia è irreversibile. Perché la vita è sacra e appartiene a Dio, pertanto è inviolabile e indisponibile. Quindi, in certi casi, l’obiezione di coscienza è per i medici la scelta necessaria per rimanere coerenti a questo “sì” alla vita e alla persona.

Da laico, ateo e materialista, condivido il principio della sacralità della vita, senza intenderlo come puro dogma religioso. Nella religione tale principio diventa dogma, ma solo per codificare qualcosa che nasce prima della religione. E’ l’istinto naturale di sopravvivere e di far sopravvivere, di inibire il potere di dare la morte in modo diretto e violento. Quindi, un laico, un ateo, un materialista, possono convenire con il papa: la vita è inviolabile e indisponibile.

Indisponibilità e inviolabilità della vita

Questo principio può inibire non solo la soppressione della vita, ma anche la sua manipolazione, l’idea di poterla creare artificialmente, o di poterla prolungare oltre i suoi limiti biologici, mediante la tecnoscienza applicata alla medicina. In effetti, la chiesa acconsente a sospendere le procedure mediche che configurino un accanimento terapeutico. C’è da discutere se non rientrino tra queste procedure anche l’idratazione e il nutrimento artificiale, che invece la chiesa rifiuta di sospendere, se la sospensione può causare la morte.

L’opposizione all’eutanasia e al suicidio assistito ha la sua ragion d’essere anche da un punto di vista laico. Perché è difficile valutare l’autodeterminazione del paziente: quanto egli possa essere condizionato dal rifiuto sociale. Le istituzioni e le famiglie possano essere tentate di indurlo a scegliere la morte, per liberarsi dai costi e dal peso dell’assistenza e della cura. È quanto può capitare, una volta accettata come normale l’idea dell’eutanasia. Tuttavia, esistono le condizioni della malattia incurabile, dello stadio terminale, della sofferenza insopportabile, di una vita dipendente non più degna di essere vissuta.

Le cure palliative invece dell’eutanasia

Tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia esiste un’altra possibilità. Quella delle cure palliative o terapia del dolore. Un trattamento sanitario che non mira più a una guarigione impossibile, ma cura i sintomi della malattia. Lenisce disturbi e dolori, al fine di permettere al paziente di avviarsi alla morte in uno stato il più possibile sereno. Una terapia che può essere intrapresa in tempo utile, anche prima dello stadio terminale. La chiesa accetta alcuni di questi trattamenti, come l’uso di analgesici per trattare il dolore.

Lo stesso messaggio del papa, prima di rifiutare l’eutanasia, si ricorda di citarle. Diverse sono le forme gravi di sofferenza: malattie inguaribili e croniche, patologie psichiche, quelle che necessitano di riabilitazione o di cure palliative.

Automobili, le belve del tempo moderno

Le automobili sono le belve del tempo moderno. Quelle preistoriche minacciavano gli esseri umani di aggredirli e sbranarli. Di quella minaccia, l’umanità si liberò con la rivoluzione agricola e poi con l’urbanizzazione. Incontrare un proprio simile male intenzionato divenne il rischio più grande: un bandito o un gruppo di balordi. Nelle civiltà moderne anche questo rischio si è ridotto; più per gli uomini che per le donne. In compenso, siamo riusciti a creare dal nulla un nuovo pericolo: la concreta possibilità di essere travolti da una tonnellata di acciaio in movimento. Pertanto, usciamo dalla nostra dimora, non più con la paura di essere sbranati, ma con quella di essere investiti. Una paura che consideriamo normale, come l’aria (inquinata) che respiriamo. Per adesso, non vogliamo liberarcene.

Ogni tanto, un incidente stradale cattura l’attenzione. È successo di recente: a Roma, in Corso Francia presso il Ponte Milvio. Pietro, un ventenne, ha investito e ucciso due ragazze di sedici anni, Gaia e Camilla. Il dibattito si è diviso tra accuse al ragazzo risultato risultato positivo ai test alcolemici e tossicologici, e accuse alle ragazze imprudenti. La seconda accusa ha avuto un risvolto inquientante: a quel semaforo, i giovani sfiderebbero la morte traversando con il rosso mentre le macchine sfrecciano a tutta velocità. Ma l’avvocato dei familiari delle due vittime è riuscito a dimostrare, mediante un video, che le due ragazze hanno iniziato a traversare con il verde e che i tempi di alternanza del semaforo, senza il giallo, sono troppo brevi.

A lato delle notizie sull’incidente mortale di Roma, è uscito un rapporto dell’Osservatorio Asaps, secondo il quale ogni 14 ore un pedone rimane ucciso. Seicentododici pedoni morti nel 2018, uno ogni due giorni. In aumento rispetto al 2017 e ancora di più rispetto al 2016. A loro si aggiungono oltre duecentocinquanta ciclisti deceduti nel 2018, uno ogni 32 ore. A contare anche gli automobilisti, nel 2018 i morti sulla strada sono stati più di tremilatrecento. È un prezzo accettabile? L’apparente vantaggio di spostarsi con le automobili è tale da non poter evitare questo sacrificio umano?

Si possono istruire meglio automobilisti, ciclisti, e pedoni. Prendere maggiori misure di sicurezza: le cinture, il casco, ed un codice della strada sempre più intelligente, ma qualcuno sbaglierà, sarà distratto, poco lucido, assonnato. Problemi nuovi si aggiungono sempre: ora è l’uso incauto e distraente degli smartphone. Dobbiamo comunque mettere in conto la necessità di qualche centinaio di morti ogni anno? Per cosa? Per spostarci seduti, al coperto, su quattro ruote, nel raggio di due chilometri o al massimo di cinque? Occupare spazio, tra strade e parcheggi, finire imbottigliati negli ingorghi, emettere gas inquinanti? Contro l’emergenza smog al nord, i medici di Torino chiedono interventi tempestivi. L’esposizione allo smog aumenta il rischio di tumore al polmone e riduce la speranza di vita. A causa dell’inquinamento muoiono prematuramente ogni anno 370 mila persone in Europa, 20 mila in Italia.

Le automobili comportano un costo umano ed ecologico troppo alto. Non occorre una scelta drastica, per liberarsene? Trasformare le città in grandi isole pedonali, reti di piste ciclabili, nelle quali l’unico mezzo motorizzato ammesso sia il mezzo pubblico o di pubblica necessità. Le ZTL, le pedonalizzazioni, le stesse piste ciclabili hanno senso, se non sono dei palliativi, che vogliono allontanare in là nel tempo le soluzioni necessarie; se procedono, sia pure con gradualità, nella chiara direzione di liberare le città dalle automobili. E’ ciò che stanno facendo molte città del nord, Oslo, Copenaghen, Amsterdam, Londra. Alcune fin dagli anni ’70, in reazione allo shock petrolifero ed agli incidenti stradali, per non rimanere più vittime delle nuove belve in lamiera.