Fontana e La Russa. Retorica e pratica democratica

Fontana e La Russa - Dalla pagina facebook di Sinistra Italiana
Fontana e La Russa – Dalla pagina facebook di Sinistra Italiana

I nuovi presidenti della Camera e del Senato sono Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa. Un cattolico integralista e un nostalgico del fascismo. Due personaggi di estrema destra accolti con un moto di indignazione dall’opinione pubblica democratica e non solo. Alcuni deputati del PD hanno alzato uno striscione in parlamento contro Lorenzo Fontana «omofobo e putiniano». Enrico Letta ha twittato che tale nomina è uno sfregio per l’Italia.

Tuttavia, l’elezione di estremisti di destra a capo del parlamento, potrebbe essere considerata un evento normale della dinamica democratica, persino meritevole di rispetto, perché l’estrema destra ha vinto le elezioni e di conseguenza designa le sue persone negli incarichi istituzionali e di governo. Diversamente, la retorica democratica si dissocia dalla pratica. Motivo per cui il messaggio democratico appare divergente.

La destra italiana è un pericolo per la democrazia, i diritti civili, le conquiste sociali, oppure un avversario legittimo, con cui si condividono i principi costituzionali?

Se la destra è un pericolo, ha senso rifiutare di collaborare al governo con lei. Unire tutte le forze democratiche pur di sconfiggerla. Agire per sottrarle la rappresentanza dei ceti medi e popolari. Perseguire un sistema elettorale proporzionale che scongiuri il rischio di consegnare la maggioranza assoluta o addirittura qualificata alla sola maggioranza relativa, che in Italia può essere facilmente di destra.

Viceversa, se la destra è un avversario legittimo, ha senso collaborare al governo e nelle istituzioni con lei, come è stato fatto con Monti e Draghi. Alessandro Zan, uno degli espositori dello striscione, può fare il vicepresidente dell’«omofobo e putiniano». Attribuirsi il ruolo dei risanatori dei conti pubblici, per rimediare alle politiche spendaccione della destra. Privilegiare il rapporto con la grande industria, i ceti vincenti della globalizzazione, i centri cittadini, lasciando il lavoro e le periferie al populismo. Teorizzare un sistema politico bipolare, la cosiddetta democrazia dell’alternanza. Preferire il sistema elettorale maggioritario. Andare sparpagliati alle elezioni.

I democratici parlano come se la destra fosse un grave pericolo, ma agiscono come se fosse un avversario legittimo.

Da Open 14 ottobre 2022

Il soccorso a La Russa

Al nostalgico del fascismo, Ignazio La Russa, sono mancati i voti di Forza Italia, per essere eletto presidente del Senato, ma ne ha ricevuti più del necessario dai banchi dell’opposizione democratica. Secondo gli analisti, e dello stesso Berlusconi, quei voti sono arrivati dai senatori di Renzi e Calenda, ma anche dai senatori di Franceschini. Il voto è segreto e non si può sapere. I sospettati respingono le accuse.

Carlo Calenda twitta che è tradizione della sinistra considerare i liberali fiancheggiatori del fascismo. In effetti, il primo governo di Mussolini fu sostenuto dai liberali. Ma senza tornare così indietro nel tempo, da trent’anni i liberali di Forza Italia sono alleati della Lega e degli eredi del MSI. Fiancheggiatori e sdoganatori. Lo stesso Calenda, come principale responsabile delle mancate alleanze di centrosinistra, ha favorito la vittoria della destra.

Matteo Renzi dice che le sue manovre le rivendica apertamente. Eppure non ha mai rivendicato la compartecipazione alla bruciatura di Romano Prodi candidato al Quirinale nel 2013. Fin d’ora, il senatore Renzi annuncia di voler fare da paracadute al governo Meloni, se non riesce ad iniziare la legislatura o se ne avrà bisogno più avanti. Una postura coerente con il soccorso a La Russa.

Perché non manifestiamo solo contro la Russia

Perché non manifestiamo contro la Russia - Manifestazione davanti all'ambasciata russa a Roma il 7 ottobre 2022 - Comitato Stop alla guerra in Ucraina
Perché non manifestiamo solo contro la Russia – Manifesto per la manifestazione davanti all’ambasciata russa a Roma il 7 ottobre 2022 – Comitato Stop alla guerra in Ucraina

Perché non manifestiamo solo contro la Russia, la guerra russa in Ucraina, come abbiamo manifestato contro la guerra degli Usa in Serbia e in Iraq? O meglio, perché non manifestate? Spesso la domanda è tendenziosa. Siete antiamericani e persino filorussi.

Però, la mobilitazione pacifista contro le guerre degli Usa solo in alcuni momenti ha avuto un impulso immediato e una dimensione di massa.

Il coinvolgimento americano nella guerra del Vietnam iniziò nel 1950 e crebbe gradualmente fino al 1962, per poi intensificarsi dal 1964. La prima manifestazione pacifista americana fu a New York, il 12 maggio 1964, composta da dodici persone che bruciarono la cartolina precetto. A San Francisco, nel dicembre 1964, Joan Baez guidò un corteo di seicento persone contro la guerra. Nell’Università del Michigan, gennaio 1965, alcuni professori organizzarono una protesta con 2.500 partecipanti, dando l’esempio ad altre 35 università. Il 17 aprile 1965, a New York, associazioni di studenti e di attivisti dei diritti umani, organizzarono una marcia di 25 mila persone. All’Università di Berkeley, maggio 1965, gli studenti bruciarono di nuovo le cartoline precetto e tennero un seminario a cui presero parte 30 mila persone.

Le grandi manifestazioni americane ed europee contro la guerra del Vietnam coincisero con gli anni della contestazione. Si alimentarono con la politicizzazione crescente dell’epoca. L’accesso di massa della giovane generazione del miracolo economico all’informazione radio-televisiva, alla scuola superiore e all’Università. Fu un movimento che si sviluppò prima nel cuore dell’impero americano poi nella provincia europea. Comunque, nell’impero, dove il movimento è opinione pubblica rispetto ai suoi governi e in quanto tale esercita la sua influenza. Ben minore sarebbe stato sul governo americano l’impatto di un movimento russo, cinese, indiano, africano o latino americano. Motivo per cui non si sviluppano movimenti occidentali contro la politica di governi dell’est o del sud del mondo. Noi non siamo e non ci sentiamo opinione pubblica rispetto a loro.

Negli anni ’70 non manifestammo contro l’installazione dei missili SS20 sovietici nell’Europa orientale. Negli anni ’80 manifestammo contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing americani nell’Europa occidentale, chiedendo anche il ritiro degli SS20 e negoziati per il disarmo. atomico. Non ci furono manifestazioni di massa contro le invasioni sovietiche dell’Ungheria (1956), della Cecoslovacchia (1968) e dell’Afghanistan (1979). Ma neppure contro le violente ingerenze americane nel mondo, in Iran, in Indonesia, in Grecia, in America Latina. Ad eccezione del colpo di stato in Cile del 1973.

Tra il 1999 e il 2003, il movimento pacifista, prima contro la guerra del Kosovo, poi contro seconda guerra del golfo, coincise con la fase e la forza del movimento altermondialista. E si appoggiò sulle strutture organizzative ancora solide della sinistra e del sindacalismo antagonista. Che oggi non ci sono più. Nel febbraio 2003, trenta milioni di persone in tutto il mondo occidentale scesero in piazza contro l’imminente aggressione americana all’Iraq. Il New York Times definì il pacifismo la seconda potenza mondiale. Una potenza che tuttavia fu sconfitta. E che non ebbe più la forza politica di chiedere il ritiro americano dall’Iraq. Né di opporsi alle guerre occidentali contro la Libia o all’interventismo in Siria. Già da prima, nel 2001 e per i successivi vent’anni, i pacifisti non seppero opporsi con decisione alla guerra americana in Afghanistan.

Se torniamo indietro nel tempo, non ci fu una particolare opposizione pacifista alla prima guerra del Golfo nel 1991. Questo per dire, che l’attuale mobilitazione pacifista contro la guerra russa in Ucraina, non regge il confronto con gli apici del pacifismo. Ma è paragonabile a molte situazioni e condizioni di mobilitazione relativa. Presidi davanti alle prefetture o davanti alle ambasciate, banchetti, petizioni, manifestazioni di dimensioni medie e piccole.

La critica sostiene che il pacifismo non chiede il ritiro russo dall’Ucraina, come invece chiese il ritiro americano dall’Iraq. Più dubbia la richiesta sull’Afghanistan. La critica in parte è sbagliata, perché la richiesta del ritiro russo fa parte delle varie piattaforme. In parte è fondata, perché è vero che il pacifismo non si focalizza nel chiedere il ritiro russo. Questo, per la semplice ragione, che il pacifismo è all’interno di stati e di un sistema di alleanze tra stati (la Nato), che a sua volta interviene nella guerra, con armamenti, istruttori, intelligence. Focalizzarsi sulla richiesta di ritiro russo, vorrebbe dire ignorare o approvare la scelta occidentale di risolvere il conflitto per via militare. Quindi, la rivendicazione principale si concentra sulla richiesta al nostro governo e ai suoi alleati, rispetto ai quali siamo e ci sentiamo opinione pubblica, di abbandonare la via delle armi, per intraprendere la via del negoziato.

P.S. Per assurdo, a suo tempo, saremmo stati molto in difficoltà nel focalizzarci sull’opposizione agli americani nelle guerre in Serbia e in Iraq, se proprio il nostro governo avesse dato le armi agli eserciti di Milosevic e di Saddam Hussein.

Sulle annessioni territoriali mediante la guerra

Annessioni territoriali - Israele e i territori occupati - Wikipedia
Annessioni territoriali – Israele e i territori occupati – Wikipedia

Il diritto internazionale rifiuta le annessioni territoriali in conseguenza dell’uso della forza. Il principio è dichiarato nel preambolo della risoluzione ONU 242/1967, emanato dal consiglio di sicurezza dopo la guerra dei sei giorni. Con la quale, Israele occupò militarmente Il Sinai, Gaza, la Cisgiordania, il Golan e Gerusalemme Est.

Ciononostante, il principio è rimasto sulla carta. A 55 anni di distanza, i territori arabo-palestinesi sono ancora sotto occupazione. Anzi, nel frattempo sono stati colonizzati. Inoltre, nel 1981, Israele ha proceduto unilateralmente all’annessione delle Alture del Golan e di Gerusalemme Est.

Fece eccezione il Sinai, non in forza del diritto, ma di una nuova guerra. L’occupazione israeliana del Sinai provocò la guerra del Kippur nel 1973, quindi l’embargo petrolifero dei paesi arabi, per punire l’Occidente alleato di Israele. Il Sinai fu restituito all’Egitto con l’accordo di Camp David del 1978, mediato, se non imposto, dagli Usa.

Dopo la guerra del Kippur, una nuova risoluzione ONU, la 338/1973, disponeva il ritiro israeliano su confini sicuri e riconosciuti. Secondo la Gran Bretagna, non stava alla comunità internazionale stabilire quali fossero i confini sicuri e quelli del 1967 non erano soddisfacenti. Secondo gli Usa, non si poteva dire alle nazioni dove dovessero stabilire i confini tra loro e i confini del 1967 non avrebbero garantito la pace.

Israele fa parte del campo delle alleanze occidentali. Quindi, le sue violazioni del diritto internazionale sono oggetto di rimproveri e raccomandazioni, ma non di sanzioni economiche. Né le vittime arabo-palestinesi, aggredite e occupate, sono sostenute con le armi e l’intelligence occidentali. Al contrario, in questo modo è sostenuto Israele. Questo per dire, che non solo le aggressioni militari, ma anche le guerre d’occupazione costituiscono un precedente che può essere messo in carico alla nostra parte del mondo.

Tuttavia, non è detto che una guerra di conquista sia di per sé più grave di un’aggressione militare o di una lunga occupazione di fatto. La posizione di Israele nelle guerre arabo-israeliane non è peggiore della posizione degli Usa o della Gran Bretagna nelle loro varie guerre umanitarie, anti-terroristiche, o esportatrici di democrazia. La distruttività anglosassone impiegata in Iraq ha il primato dell’orrore e merita il primato della condanna. Il partito della guerra in Russia rimprovera a Putin di non aver fatto in Ucraina quello che gli americani hanno fatto in Iraq.

Le annessioni territoriali sono tipiche delle guerre tra paesi confinanti e riguardano territori tradizionalmente contesi, per storia o per composizione demografica e linguistica. Per esempio, il Donbass, annesso unilateralmente e illegalmente dalla Russia, è stato storicamente il cuore dell’industrializzazione prima russa e poi sovietica. I suoi territori sono popolati da genti russe e russofone. Quando la Russia va a fare la guerra in Libia o in Siria non procede ad annessioni territoriali.

Lo stesso vale per gli americani che guerreggiano nel mondo, non per costruire imperi territoriali, ma per garantirsi il controllo dei mari, delle rotte commerciali e di rifornimento, delle fonti energetiche e delle materie prime, dei mercati e della manodopera.

Nondimeno, a suo tempo, gli stessi Usa si sono formati e ingranditi territorialmente, procedendo per annessioni territoriali, in forza di guerre di conquista, a scapito delle popolazioni indigene o degli stati confinanti. Prima di completare la propria formazione territoriale, gli Usa hanno teorizzato il dominio sull’America latina, con la dottrina Monroe del 1823, una sfera di influenza continentale, detta volgarmente cortile di casa, nella quale non hanno mai accettato nemici o gli avamposti delle potenze nemiche.

Il momento giusto per negoziare

Il momento dell’esplosione sul ponte che collega Crimea e Russia
Il momento dell’esplosione sul ponte che collega Crimea e Russia

Dal punto di vista di chi aderisce alla logica della guerra, si sente schierato, parte in causa, il punto di vista partigiano, negoziare è una funzione della guerra. Qualcosa che deve capitare al momento giusto, per non perdere troppo, o per vincere di più. In genere, il momento giusto non è sincronizzato tra le due parti. Quando una parte pensa di avere interesse a trattare, l’altra pensa di non averlo.

In questa fase, gli ucraini sono all’offensiva e pensano di poter riconquistare molto, forse tutto, prima di trattare con i russi. Perciò, gli ucraini adesso non vogliono trattare. Si sono fatti persino un decreto legge per vietarselo. Viceversa, i russi non riescono più ad avanzare, anzi faticano a tenere le loro posizioni, hanno già perso un oblast intero. Si sono annessi quattro regioni, per poter dire che è territorio russo sotto attacco, ma l’attacco prosegue. I russi forse adesso vorrebbero trattare. Più avanti vorranno riconquistare quanto perso.

Dal punto di vista pacifista, negoziare è quello che si deve fare sempre al posto della guerra, per non uccidere o rimanere uccisi. Per scongiurare il rischio dell’escalation. Volontaria o accidentale come mostra l’esplosione sul ponte di Kerch e poi l’attacco a Zzaporizhzhya. La trattativa è l’alternativa alle armi, non l’accompagnamento o il corollario. Il momento giusto è sempre, subito, perché la guerra è come un’alluvione, una epidemia, un incendio. Non c’è da aspettare per spegnerlo. È qualcosa a cui porre subito rimedio, in una lotta contro il tempo. Compito dell’opinione pubblica pacifista è premere per cessate il fuoco e per il negoziato subito.

Ciascuno dichiara le sue pregiudiziali. Vuole trattare alle proprie condizioni, non a quelle dell’altro. Ma le condizioni della trattativa sono le condizioni del tempo presente. Si parte dal punto in cui ci si trova. Come non si può aspettare il 24 febbraio prossimo, non si può tornare al 24 febbraio scorso. Voler far viaggiare il negoziato sulla macchina del tempo, è un espediente per farsi dire di no. Far finta di voler negoziare e attribuire la colpa del rifiuto alla controparte. Tutto dello stato di cose presenti si può cambiare, in quanto è oggetto, non requisito, del negoziato. Lo stesso auspicabile ritiro russo.

Russia e Ucraina. Al bivio tra la pace e la terza guerra mondiale

Russia e Ucraina - La controffensiva di Kiev - Euronews, 6 ottobre 2022
Russia e Ucraina – La controffensiva di Kiev – Euronews, 6 ottobre 2022

Tra Russia e Ucraina, un accordo di pace o almeno di tregua richiede che le parti in conflitto siano convinte di ottenere molti danni e pochi benefici nel proseguire la guerra. Per quanto sbagliato dal punto di vista pacifista, l’aiuto occidentale all’Ucraina, in armi e intelligence, poteva avere un senso nella misura in cui puntava al riequilibrio delle forze. In modo da creare una situazione di stallo tale da rendere vantaggiosa la tregua per entrambi. In particolare, questa era l’idea euro-occidentale (Germania, Francia, Italia, Spagna). Invece, la parte euro-orientale (Polonia e Paesi Baltici) puntava sull’inversione dei rapporti di forza, per la capitolazione della Russia. L’Occidente anglosassone, diviso tra i due, era ed è più in sintonia con gli euro-orientali, specie la Gran Bretagna.

Al momento, l’aiuto militare occidentale ha provocato un rovesciamento dei rapporti di forza, per cui, l’Ucraina è all’offensiva, i russi in ritirata. Ma non al punto tale dall’aver determinato una controffensiva finale. Questa è la situazione più sfavorevole all’accordo di pace o di tregua e la più pericolosa per l’intensificazione del conflitto nella direzione della terza guerra mondiale o persino della guerra nucleare. Gli ucraini hanno l’illusione della vittoria. I russi lo spettro della sconfitta. Che faranno di tutto per respingere, con tutti gli uomini e mezzi necessari, perché la sconfitta potrebbe voler dire la fine di qualsiasi futura velleità imperiale e la fine del loro regime. Forse della stessa Federazione Russa.

Gli Stati Uniti sono il paese che può fare di più, per determinare la fine della guerra in Ucraina. Basterebbe loro voler trattare con la Russia; portare il negoziato al livello dei rapporti globali, i limiti della Nato, il ruolo della Russia nel concerto delle grandi potenze. Gli americani sono quelli che rischiano di meno nel proseguimento della guerra. La loro economia non soffre la dipendenza energetica e il costo delle sanzioni. Il loro territorio è relativamente al sicuro oltre l’Atlantico; se la guerra deflagra, il teatro mondiale della guerra sarà l’Europa.

Però, gli stessi americani potrebbero non voler continuare a investire soldi, tempo e concentrazione nella guerra in Ucraina senza venirne a capo in tempi ragionevoli. La prospettiva di fare dell’Ucraina l’Afghanistan d’Europa ha tempi così indefiniti da non poter resistere all’alternanza politica americana. Già dal prossimo novembre, dopo le elezioni di medio termine, i democratici perderanno la maggioranza al congresso. E nel 2024, alla Casa Bianca potrebbe esserci di nuovo Donald Trump o un personaggio a lui somigliante. Allora, anche Joe Biden potrebbe avere interesse a regolarsi per tempo e a mettere un punto alla guerra in Ucraina.

Cosa si può immaginare sul terreno tra Russia e Ucraina; si può darla vinta ai russi? Né vinta, né persa. Tutto l’Occidente ha disconosciuto la farsa illegale dei referendum, per l’annessione di quattro regioni alla Federazione Russa. Annessione adesso rosicchiata dalla controffensiva ucraina. Questo disconoscimento ha due possibili implicazioni. Che i referendum sono illegali, perché l’integrità territoriale dell’Ucraina è un valore assoluto; quindi, non si devono fare in nessuna condizione. Che i referendum sono una farsa, perché non sono veramente liberi gli abitanti elettori sotto la minaccia degli occupanti russi. Quindi i referendum si potrebbero rifare in condizioni di libertà, sotto il controllo degli osservatori della comunità internazionale. Fermo restando, quale che sia l’esito, uno statuto di speciale autonomia per queste regioni.

La quantità di morte e distruzione, la ferita al diritto internazionale inferta dall’aggressione russa all’Ucraina rimarrebbero tali senza essere riparati. Ma una politica mossa dal militarismo e dal nazionalismo volta a vendicare l’Ucraina e punire la Russia a sua volta non sarebbe una riparazione. Ma la conferma ulteriore della logica dei puri rapporti di forza. L’aggiunta spropositata di morte e distruzione a morte e distruzione. Il diritto si ripara con la pratica del negoziato, perché il diritto è negoziato. In quanto esistono principi in contraddizione tra loro, come l’integrità di un territorio e l’autonomia delle sue regioni, minoranze etniche e linguistiche. Il rifiuto pratico della violenza, per risolvere queste controversie, è il diritto nella sua pratica negoziale.

Sui risultato elettorale del 25 settembre

Risultato elettorale - Elezioni Politiche 2022 - Wikipedia
Risultato elettorale – Elezioni Politiche 2022 – Wikipedia

L’orientamento elettorale della popolazione è monitorato ogni settimana da diversi istituti demoscopici. Conosciamo questo orientamento in tempo reale per tutto l’anno. Le elezioni confermano gli ordini di grandezza delle previsioni; il risultato elettorale è dato per scontato. Solo le proporzioni rimangono incerte.

Sapevamo che il 25 settembre avrebbe vinto la destra al traino di Fratelli d’Italia. Risultato confermato nelle stesse proporzioni, tra il 43% e il 44%; quindi sventato il pericolo che Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi, insieme ottenessero i due terzi dei seggi delle camere, con il potere di cambiare la Costituzione. Abbiamo visto due variazioni nei risultati di lista. Fratelli d’Italia, primo partito, ha vinto più del previsto, arrivando al 26%. La Lega, crollata all’8,5%, ha perso molto più di quanto annunciato. E questo ci salva dal rischio di un ritorno di Salvini al Viminale.

Il PD ha mancato l’obiettivo di essere perdente come centrosinistra, ma vincente come primo partito. Arrivato secondo, sotto il 20% ha perso più di quel che temeva. Il M5S, prima considerato spacciato, durante la crisi del governo Draghi, poi dato in rimonta soprattutto al sud, è arrivato al 15% ed è la terza forza politica nazionale. Il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi con il 7% è arrivato quarto. Risultato più che dignitoso per una tale offerta politica, ma al di sotto delle aspettative, che volevano una percentuale a due cifre.

A sinistra, gli stessi risultati da quattordici anni a questa parte. Verdi e Sinistra (3,5%), la forza alleata con il PD, supera la soglia di sbarramento per cinque punti decimali. L’Unione Popolare, la forza antagonista al PD, disperde il solito 1,5%.

Il record di astensione, 36%, è inteso come una critica di massa al sistema politico, ma non si capisce di che segno sia e con quale grado di avversione. Se l’esito elettorale è dato per scontato, le discriminanti politiche sembrano sfumate, l’effettivo potere decisionale collocato oltre la politica, è naturale che molti ritengano inutile votare, senza necessariamente rammaricarsene, se non nella forma di un diffuso e distratto scetticismo. Alcuni partiti, in genere i perdenti, mostrano di preoccuparsene. Ma poiché non esistono più partiti di mobilitazione, il consenso ambito è di tipo passivo, d’opinione. Il consenso passivo, come il dissenso impotente, diventa facilmente astensione.

Perché è andata così? Se le forze democratiche perdenti fossero state alleate, sarebbero state più competitive, ma non avrebbero cambiato il risultato elettorale. Motivo per cui non si sono alleate. Dal 1994, le forze di governo hanno sempre perso le elezioni. Le condizioni materiali di vita della classe media e medio bassa, peggiorate o percepite in peggioramento sono state messe sul conto dei governi in carica, per poi puntare sulle opposizioni o su nuove forze emergenti. Lo stesso è avvenuto per la maggioranza quasi di unità nazionale del governo Draghi. I partiti che l’hanno sostenuta hanno perso. Premiata solo l’unica opposizione e il partito indicato come colpevole della caduta del governo.

Ora non so, se e come il Partito Democratico si metterà in discussione. Gli annunci relativi al cambio di nome, di leadership o a mutamenti organizzativi, non lasciamo presagire grandi idee. D’altra parte, nessuno sa come conciliare la rappresentanza del lavoro, delle periferie, delle condizioni di povertà con un irrinunciabile interclassismo. È possibile che il PD alla fine punti sull’alternanza. Sull’idea che il governo di destra fallirà, verrà caricato dei problemi irrisolti, così che il pendolo elettorale torni a sinistra. Ma, in questa prospettiva, i democratici dovranno fare i conti con l’opposizione concorrente del M5S, che potrebbe risultare più interessante del PD. Azione e Italia Viva scommettono sulla fine del PD, per ereditarne le spoglie. Tuttavia, non si vede come un’alternativa democratica cosiddetta riformista possa rigenerarsi in un modo così parassitario.

Verdi e Sinistra nonostante il PD

Verdi e Sinistra - Pagina FB di Sinistra Italiana
Verdi e Sinistra – Pagina FB di Sinistra Italiana

Quattro i partiti votabili il 25 settembre. Da un punto di vista democratico e di sinistra. Il primo è il Partito Democratico. Il più forte. Il voto utile per definizione. Perché il voto non è necessariamente a favore. Può essere contro. Come fu, nel 2002, il voto di molta sinistra francese per Jacques Chirac contro Jean Marie Le Pen. Così, può votare PD anche chi lo reputa insufficientemente o per nulla di sinistra. Contro la destra di Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi. Auguro ai democratici di Enrico Letta di riuscire ad andare al governo anche se perderanno, come già successo in passato. Tuttavia, non voterò il PD, perché è il partito che con maggior convinzione sostiene la guerra americana contro la Russia in Ucraina. E perché esistono delle alternative.

Le stesse considerazioni non valgono per Azione e Italia Viva, il cosiddetto terzo polo, perché si tratta di una formazione troppo debole, per essere di contrasto alla destra e perché ha un profilo politico troppo avverso alla sinistra. Tanto da poter essere intercambiabile con Forza Italia, da cui ha reclutato Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini. Paradossalmente le figure più interessanti dello schieramento di Carlo Calenda e Matteo Renzi.

La prima alternativa al PD è il M5S di Giuseppe Conte. Il partito che ha voluto il reddito di cittadinanza. La riforma sociale più importante degli ultimi trent’anni. Che ha sottratto alla povertà un milione di persone, secondo l’Istat. È anche il partito che ha fatto più ostacoli al riarmo e all’invio di armi all’Ucraina, sebbene alla fine per vincolo di maggioranza non si sia opposto. Quello al M5S potrebbe essere il vero voto utile al sud, dove è dato in forte rimonta. In molti collegi meridionali, contro la destra, il M5S è più competitivo del PD. Tuttavia, vivo al nord e nei confronti del M5S continuo a nutrire un pregiudizio, un principio di diffidenza culturale. Perciò, non voterò questo partito, anche se gli auguro di ottenere il miglior risultato.

L’alternativa più risoluta è l’Unione Popolare di Luigi De Magistris. Comprende le sinistre più radicali. Rifondazione Comunista e Potere al Popolo. I comunisti sono il mio richiamo della foresta. Il loro pacifismo è perfetto. Il programma economico e sociale, quanto di meglio possa esserci dalla parte dei poveri e dei lavoratori. Gli auguro di raggiungere il quorum, sebbene sia un traguardo improbabile, più volte fallito dal 2008. Non voglio disperdere il voto. Eppure, c’è un motivo più importante che mi fa dubitare di questa formazione. L’ambiguità sulla pandemia; le polemica anarcoide contro le restrizioni, gli obblighi e la «violazione delle libertà civili». Forse utile per attirare il consenso d qualche frangia irresponsabile. Ma quanto basta per tenere a distanza chi sostiene il primato della salute pubblica.

Infine, c’è l’alleanza Verdi e Sinistra. La loro posizione è corretta tanto sulla politica economica e sociale, sulla politica energetica e ambientale, quanto sulla politica estera. Lo so, sono alleati del PD e accusati di esserne la foglia di fico. Tuttavia, una foglia di fico che è riuscita a far saltare l’alleanza del PD con Carlo Calenda. Loro giurano di essere vincolati solo a un patto elettorale con il PD e di avere piena autonomia programmatica. In effetti, mentre il PD era il principale partito del governo Draghi, verdi e sinistra erano all’opposizione. Dunque promettono qualcosa che hanno già fatto.

Il voto a Verdi e Sinistra tiene insieme il voto ambientalista e di sinistra senza entrare in conflitto con il voto utile al PD. Poi, si tratta di valutare collegio per collegio. Nel mio, il cattolico democratico Stefano Lepri è un candidato dignitoso. Verdi e Sinistra possono superare il quorum. Gli auguro di riuscire a formare un buon gruppo parlamentare. Insieme all’augurio, gli do anche il mio voto.

Sulla controffensiva ucraina a nord del Donbass

La controffensiva ucraina di Kharkiv e altre notizie interessanti - Limes 12 settembre 2022 - Dettaglio della carta di Laura Canali.
La controffensiva ucraina di Kharkiv e altre notizie interessanti – Limes 12 settembre 2022 – Dettaglio della carta di Laura Canali.

La controffensiva ucraina nella regione di Kharkiv ha riacceso le speranze occidentali in una sconfitta della Russia. Sebbene i comandi militari statunitensi siano cauti nel valutare la portata del successo ucraino. Secondo il capo di stato maggiore americano, mantenere i territori riconquistati non sarà semplice. Al netto, poi, di questo successo è complicato valutare il contesto e la possibile reazione russa.

L’informazione è limitata dall’assenza di giornalisti indipendenti sul teatro di guerra. Le notizie di fonte occidentale si affidano quasi del tutto ai bollettini dell’esercito ucraino. E poiché l’informazione è condizionata dalla propaganda di guerra, rischiamo di sopravvalutare le potenzialità dell’esercito ucraino e di sottovalutare quelle dell’esercito russo. Il quadro narrativo non è sostanzialmente cambiato. Da quando abbiamo visto che la Russia non ha conquistato Kiev in tre giorni, ci siamo raccontati le difficoltà dei russi che avanzano lentamente, non avanzano, si ritirano e i successi degli ucraini, che resistono e contrattaccano.

Questo tipo di propaganda è necessario, perché la tenuta del fronte interno ha bisogno di notizie sempre positive e di prospettive sempre ottimistiche. Dobbiamo pensare che stiamo facendo le cose giuste, che le armi occidentali servono, che le sanzioni servono, quindi, nonostante i sacrifici, dobbiamo insistere. Non che sia tutto falso o tutto inutile. Ma la narrazione di guerra è dopata in questo senso. Così come la demonizzazione del nemico. Il solo che commettere orrori. Mentre gli amici avanzano con la nuova artiglieria occidentale senza far del male a nessuno (mercati, scuole, ospedali, case), non torturano, né uccidono i prigionieri.

È stato spiegato bene, che il successo ucraino a Kharkiv è il frutto di un’astuzia. Per tutta l’estate il governo ucraino ha annunciato una grande controffensiva entro settembre nella regione di Kherson, a sud. I russi hanno quindi spostato le loro truppe verso sud, per rafforzare la linea difensiva. Ma così facendo hanno sguarnito la regione che consideravano più sicura, a nord. Gli ucraini hanno attaccato a nord, liberando a sorpresa migliaia di chilometri quadrati. Ora, si spera che i russi rinuncino a proseguire la loro lenta avanzata o addirittura che crollino in tutto il Donbass. Sebbene la controffensiva ucraina, almeno nella sua impetuosità, pare essersi già fermata.

Il limite dei russi, forse il principale, è quello di tenere un fronte molto ampio, a ferro di cavallo, con un numero insufficiente di soldati. Lo stesso limite degli americani in Afghanistan e in Iraq. L’idea di poter prevalere nella guerra con la sola superiorità delle armi da affidare a pochi soldati. Invece, le guerre sul terreno si continuano a vincere o perdere in forza della quantità e qualità dei soldati. Così, pregando sia sempre escluso l’uso di armi nucleari tattiche, la reazione russa potrà essere quella di mandare più soldati nel Donbass.

In teoria, è semplice, in pratica è difficile, perché su scelte di questo tipo si misura il grado di consenso e lo spirito di motivazione a sostegno della guerra. Finora i russi si sono affidati ai mercenari, alle milizie delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk e ai soldati meno preparati delle etnie «minori» del loro impero. L’altra incognita è il rapporto tra i soldati russi e le popolazioni russe e russofone del Donbass. Se queste sostengono, oppure no, l’«operazione militare speciale». I soldati russi potranno reggere se hanno un sufficiente consenso popolare.

Per parte nostra, di noi europei e italiani, non abbiamo ancora vissuto le conseguenze indiretta della guerra ucraina. Solo avvisaglie. Ma l’impatto sulle nostre condizioni materiali di vita avverrà nel corso dell’autunno e dell’inverno, soprattutto se la Russia interromperà del tutto le forniture di gas. A quel punto ci domanderemo se ne vale la pena. E non sarà in rapporto a ideali astratti. Certo, che la libertà, la democrazia, l’indipendenza ne valgono la pena. Ammesso che questi valori corrispondano effettivamente al nostro campo. Quel che deve valere è un’ipotesi concreta di conclusione della guerra in tempi politicamente ragionevoli. Ci sacrifichiamo per questo esito, entro questo tempo. Diversamente, sarà complicato diventare più poveri e disoccupati, e persino rischiare di essere coinvolti in guerra, per un orizzonte presunto ideale e sicuramente indefinito.

Mikhail Gorbaciov il grande riformatore sovietico tradito dall’Occidente

Mikhail Gorbaciov
Mikhail Gorbaciov

Nella seconda metà degli anni ’80, noi comunisti sperammo in molti che Mikhail Gorbaciov fosse capace di riformare l’Urss e rigenerare il socialismo. Nei suoi confronti provammo qualcosa in più della fiducia, stima, ammirazione. Una specie di culto della personalità positivo. Che si può provare per quegli idoli che non stanno al ruolo e non si monterebbero mai la testa. Ricordo un intervento di Giancarlo Pajetta al telegiornale. Disse che la storia non la fanno i leader, ma qualche volta si. E lui non osava immaginare un incidente, l’aereo di Gorbaciov che precipita, cosa questo avrebbe significato per l’Urss e per il mondo. Si, perché le nostre speranze non riguardavano solo l’Urss e il socialismo, ma il mondo intero, che nella guerra fredda, sembrava sull’orlo di una guerra atomica. L’uomo nuovo del socialismo, Mikhail Gorbaciov, era l’uomo della pace nel mondo.

Per questo motivo, Gorbaciov fu ammirato in tutti i paesi e in tutte le aree politiche. Sebbene fosse anche criticato, perché riformava troppo o troppo poco. Conduceva le riforme da una posizione centrale nel Pcus, osteggiato da un’ala conservatrice guidata da Egor Ligaciov e da un’ala radicale guidata da Boris Eltsin. Il suo progetto consisteva nell’introdurre trasparenza nei processi decisionali (glasnost), elementi di mercato e autonomia delle imprese nell’economia (perestrojka) e incremento della produttività per recuperare il divario con l’Occidente. Tuttavia, la glasnost diede fiato ai nazionalismi e la riforma economica mancò di tempo e credito finanziario. D’altra parte, l’Urss era in declino da vent’anni. Anche per questa ragione Gorbaciov era pacifista. Le enormi risorse investite nella corsa agli armamenti dovevano essere liberate e riorientate nella riforma economica.

Il progetto fallì, perché Gorbaciov fu indisponibile a usare la repressione violenta, per tenere a bada i nazionalismi e l’estremismo dei radicali. Così, i conservatori tentarono un disperato colpo di stato contro lo stesso Gorbaciov, arrestato durante le sue vacanze in Crimea nell’agosto 1991. Il tentato golpe ebbe il solo effetto di accelerare la disgregazione dell’Urss. Nonostante, la sconfitta, nel bilancio storico Gorbaciov si salva per aver messo fine alla guerra fredda e alla divisione dell’Europa, oltre ad avere messo in gioco il suo potere, per un grandiosa visione riformatrice. Si salva per molti, ma non per tutti.

Gorbaciov riceve da allora due grandi critiche. Avere tradito il socialismo. Avere mancato di realismo. La prima critica, dice che Gorbaciov si sarebbe arreso all’Occidente e avrebbe operato per restaurare il capitalismo in Russia. La seconda critica dice che Gorbaciov ha perseguito un obiettivo impossibile: riformare un sistema irriformabile. La prima critica non considera che il capitalismo in Russia, con un’economia pianificata con cattivi investimenti sull’industria pesante e il riarmo, si stava restaurando da solo con il mercato nero. La seconda critica è un luogo comune. Non esistono sistemi irriformabili per definizione. Tutto dipende dal grado di cooperazione intorno al progetto di riforma, al netto delle resistenze conservatrici e degli opportunismi avversari.

La visione di Gorbaciov era fare dell’Urss una grande socialdemocrazia integrata nella casa comune europea. Per riuscire scommetteva sulla cooperazione con l’Europa e gli Stati Uniti, perché, la fine della guerra fredda sarebbe stata un grande vantaggio comune. Ma, invece di cooperare, gli Stati Uniti scelsero di approfittarne. Nel 1991, il G7 negò a Gorbaciov un grande prestito finanziario. Lo fece tornare a casa a mani vuote e così lo espose al colpo di stato. Dopo il golpe, l’Occidente puntò sulla liquidazione dell’Urss e su Eltsin, che ottenne tutti i crediti negati a Gorbaciov. Seguì la grave crisi sociale russa degli anni ’90 e l’espansione occidentale a Est. La crisi e la mortificazione di potenza che hanno poi partorito la Russia di Putin. Purtroppo, in patria, nella memoria collettiva, la dissennata stagione di Eltsin e la sua subalternità all’Occidente sono messi in carico a Gorbaciov.

Fece male Gorbaciov a fidarsi degli occidentali? Fu un ingenuo? Probabilmente, non aveva altra scelta, perché l’alternativa consisteva nel proseguire la vecchia storia sovietica. O nel darsi più tempo, ma senza rinunciare alla violenza. Ogni grande impresa richiede un grande investimento di fiducia. Il capitale è il coraggio. La controparte occidentale era più forte. Non sentiva il bisogno di essere coraggiosa e neppure onesta. D’altronde, il progetto di Gorbaciov era in contraddizione con il principio strategico americano. Tenere la Russia separata dall’Europa.

Come votiamo a sinistra il 25 settembre?

Elezioni politiche del 25 settembre. I simboli elettorali del Partito Democratico, Verdi-Sinistra Italiana, Movimento 5 Stelle, Unione Popolare
Elezioni politiche del 25 settembre. I simboli elettorali del Partito Democratico, Verdi-Sinistra Italiana, Movimento 5 Stelle, Unione Popolare

Come votiamo il 25 settembre? Ce lo domandiamo dal punto di vista dell’elettore di sinistra. Come molte denominazioni politiche, sinistra comprende diverse cose, anche in contraddizione tra loro, fino a diventare una parola vuota. In senso ampio è il progressismo, ma proviamo a darne una definizione più ristretta. È di sinistra la persona che vuole redistribuire i poteri e le ricchezze da chi ne ha di più a chi ne ha di meno, per realizzare una società il più possibile democratica, giusta, equilibrata.

Quindi, nei diversi conflitti di classe, sesso, razza, e popoli, la persona di sinistra si sente solidale con i proletari, le donne, i neri, i paesi poveri. Senza intendere questi soggetti come perdenti, perché – qui c’è un punto qualificante la definizione – la persona di sinistra crede di andare nel senso della storia. Sta dalla parte degli ultimi con l’intima convinzione che gli ultimi saranno i primi. Già su questa terra.

Poi, questa persona può essere molto idealista, concentrata sulla sorgente e sul delta, oppure molto realista, attenta a come navigare tra le correnti del fiume, argini, rocce, cascate, mulinelli, liquami inquinanti. Le elezioni politiche non ci fanno sfociare nel mare o precipitare negli abissi, sono solo un’insidia o un’opportunità tra le altre, lungo il percorso del fiume.

L’astensione può tentare l’idealista. Una scelta che ha senso solo nel referendum abrogativo, quando ci si astiene per far mancare il quorum e far fallire il referendum. Le elezioni non hanno quorum, non possono fallire, redistribuiscono i seggi quale che sia la percentuale dei votanti. Il non voto è silente e può essere interpretato in ogni modo. Non voti perché stai male e non ti senti rappresentato da nessuno, oppure perché stai bene e ti senti rappresentato da tutti. Sei un astensionista deluso da chi? Dalla destra, dalla sinistra, dai 5 stelle? Cosa bisognerebbe fare per te? Tutto e il contrario di tutto. Il tuo non voto significa solo quello che pensi tu, ma non lo dici in modo intelligibile.

Si può votare per il Partito Democratico. Tra gli avversari della destra è il partito più forte. Garantisce un certo livello di decenza istituzionale. È un partito più di centro che di sinistra, ad ogni modo comprende qualcosa di sinistra, che in futuro potrebbe rigenerarlo. Però, pare un argine ambivalente, di quegli argini che costringono l’acqua finché non la fanno straripare. Non ha un’idea forte di politica sociale o di politica ambientale. Sostiene in modo acritico la politica economica di un alto esponente della finanza europea. Lo stesso fa con la politica estera. Si affida allo stato guida e all’alleanza atlantica. Anche a costo del sacrificio immediato dell’interesse nazionale. Si presenta alle elezioni senza alleati importanti, nonostante si allarmi per il pericolo della destra.

Si può votare per l’alleanza tra i Verdi e Sinistra Italiana. Hanno le posizioni giuste un po’ su tutti i temi. Ed anche delle belle candidature. Però, si presentano in coalizione con il PD e sono accusate di essere la sua foglia di fico a sinistra. Dal canto loro, dichiarano di aver fatto con il PD solo un’alleanza elettorale, di aver preservato la propria autonomia programmatica e di non avere vincoli per il dopo elezioni. Insomma, una scelta finalizzata alla garanzia di avere una presenza parlamentare. Votarli sarebbe come votare a sinistra, senza togliere nulla al PD, cioé senza favorire le destre.

Si può votare per il Movimento 5 Stelle. Il partito che ha fatto la riforma sociale più importante da molti anni a questa parte. Il reddito di cittadinanza. Che, secondo l’Istat, ha salvato un milione di persone dalla povertà assoluta. In questo momento, seppure in declino, è il partito più grande nel rappresentare alcune istanze tradizionalmente di sinistra, dal welfare al pacifismo. A parere del sociologo Domenico De Masi, per programmi e composizione elettorale, il M5S è il partito più prossimo ad essere l’erede del PCI. Tuttavia, il M5S rimane un’incognita. Una forza culturalmente ambigua. Né di destra, né di sinistra. In passato è stato pronto a governare con la Lega, a fare una politica anti-immigrati, a praticare il sessismo contro le avversarie politiche, in particolare contro Laura Boldrini. Tuttavia, il capo politico di quel M5S era Luigi Di Maio, oggi candidato con il PD.

Si può votare per l’Unione Popolare di Luigi De Magistris, che comprende Rifondazione Comunista, Potere al Popolo e altre formazioni di sinistra. È la forza più radicale di sinistra. Per chi è contro la destra, avversa il PD e vuole stare a sinistra, sembra la scelta giusta. Però, ha due limiti. 1) I sondaggi la danno molto in basso, potrebbe non superare la soglia di sbarramento, con l’effetto di disperdere il voto. Sarebbe stato interessante vedere l’Unione Popolare in coalizione con il M5S. 2) È tentata di attrarre consensi da ogni area di contestazione, anche a rischio di essere ambigua sulla gestione della pandemia e sul complottismo, mescolando critiche giuste e sbagliate.

Queste sono le scelte in campo. Quattro possibilità e quaranta giorni per pensarci.